30-05-2024 Chiara Brivio 5 minuti

La bellezza che cura. La sfida della ricostruzione secondo Raul Pantaleo

TAMassociati: dal “maestro” Gino Strada ai progetti che guardano a qualità e sostenibilità

«Sono andato in Siria per un sopralluogo nella zona di Homs, dove stiamo progettando un ospedale per conto della Fondazione Aga Khan Health Services. Sono stato una settimana. Arrivare in Siria è complesso, non ci sono voli diretti per Damasco e bisogna entrare via terra dal Libano, ma dal punto di vista della sicurezza all’interno del Paese ci si muove abbastanza bene, a parte alcune zone. Ho avuto la possibilità di visitare il centro storico della Capitale, intatto e bellissimo, senza turisti. Ma le periferie portano i segni pesanti della guerra. Si parla spesso di ricostruzione, ma qui si tratta di migliaia di metri cubi di macerie in un Paese allo stremo economico, dal quale le persone sono scappate».

Raul Pantaleo di zone di guerra ne ha viste tante. Oggi TAMassociati, lo studio di cui è fondatore insieme a Massimo Lepore e Simone Sfriso con base a Venezia, sta lavorando in Sudan per l’Agenzia della cooperazione tedesca con la realizzazione due centri di formazione professionale in Darfur (progetto che ha vinto lo scorso ottobre il premio alla Biennale di architettura di Pisa) e ha appena concluso un grande ospedale a Kisumu in Kenya, per l’Aga Khan development network. E poi c’è il sodalizio di TAMassociati con Gino Strada ed Emergency che dura da diversi anni, e che ha portato gli architetti a progettare ospedali e strutture sanitarie in tutto il mondo, dal Centro di chirurgia pediatrica a Entebbe, in Uganda, con Renzo Piano, fino all’Iraq e all’Afganistan, oltre che in Italia.


La filosofia di TAMassociati è prendersi cura con l’architettura, un’espressione che denota fin da subito un approccio sociale e umano alla progettazione.


E tornando alla Siria aggiunge, «Il dato di fondo che ho registrato nelle persone è una grande dignità: la pulizia e la cura nella manutenzione degli edifici, pur in condizioni di enormi difficoltà economiche». «Ho incontrato i siriani sbarcati dalle navi in Sicilia, li ho ritrovati nei campi profughi in Iraq – racconta Pantaleo – e già in questi due piccoli episodi avevo potuto apprezzare la loro cultura straordinaria». Una cultura e una formazione specialistica, anche nel campo dell’architettura, che oggi soffrono per la mancanza di talenti e di risorse, imprigionate in un Paese isolato dal resto del mondo, soggetto a sanzioni, con una crisi economica devastante, distrutto da anni di guerra civile e nel quale persino la Farnesina sconsiglia di recarsi. Secondo i dati dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, sono oltre sei milioni i siriani all’estero e più di 300mila i morti tra il 2011 e il 2021. Dei sette milioni di profughi interni, il 70% ha bisogno di assistenza umanitaria e il 90% vive sotto la soglia di povertà. Una guerra dimenticata, anche a causa di altri conflitti tristemente balzati agli onori delle cronache, come quello in Ucraina e più recentemente a Gaza.

Com’è Homs oggi?
Fortunatamente non è stata interamente distrutta. Rispetto ad Aleppo, per esempio, si trova in una situazione più stabile. Ci sono pezzi di città fantasma e altri vivi e pieni di commercio. Ma quando sono andato con un collega a visitare un ospedale in ristrutturazione, dall’alto non si vedevano altro che macerie. In Siria c’è grande amarezza quando si ascolta popolazione, per un movimento che è nato dalla società civile che poi è degradato in una guerra civile violenta e devastante. I giovani l’unico futuro che vedono si chiama “Germania”. Ho avuto anche la fortuna di visitare il dipartimento di restauro della facoltà di Architettura di Damasco, dove ci sono postdoc e dottorati di livello altissimo, ma fa male vedere questo Paese prigioniero della guerra.

Nel caso della Siria, è d’accordo con la definizione di “urbanicidio”?
Sì, sono d’accordo, e mi viene in mente Vukovar, nella ex Jugoslavia. Il dramma di qualunque guerra è l’uccisione delle persone, di anziani, di donne, di bambini. Ma questo dato, pur nella sua tragicità, da un punto di vista temporale è un fatto “breve”, anche se lascia strascichi drammatici. La distruzione di un edificio invece è qualcosa che dura nel tempo. E in particolar modo nel caso di edifici simbolici, è corretto parlare di urbanicidio, perché significa togliere il futuro, lanciando un segnale, un monito. Credo che lasciare i ruderi e macerie sia uno strumento politico per affermare il controllo attraverso la distruzione. Non so se in questo caso ci sia stata una determinata volontà politica, ma sicuramente diventa una ferita che non si rimargina anche solo per una scarsità di risorse. Non scampi, è lì.

E la ricostruzione?
La ricostruzione è un messaggio di speranza, e non parlo solo di architetti, ma di noi tutti costruttori di un pezzo di futuro. Tu stai costruendo un messaggio per gli anni a venire, realizzando un edificio importante come un ospedale. Noi siamo partecipi di questa narrazione che si contrappone all’annientamento.

Cosa guida la vostra progettazione?
La bellezza come strumento di cura. Laddove la guerra toglie il futuro, un edificio, bello, curato che si dà attenzione alle persone, è di per sé curativo.

Dostoevskij diceva che la bellezza salverà il mondo, forse non lo fa, ma sicuramente aiuta. Un altro grande tema è la sostenibilità. Ci viene richiesto di costruire edifici esemplari dal punto di vista energetico e del tema dell’acqua (basti pensare alle zone dove TAMassociati lavora). E ultimamente, una progettazione che nasce dell’analisi climatica proiettata ai prossimi 20-30 anni, più che da quella odierna, e che tiene conto di fattori come la piovosità del luogo o l’aumento delle temperature. Questa è la novità del nostro approccio progettuale. Nel caso della Siria, che si trova già in una regione climatica difficile, bisognerà capire come questo edificio potrà reagire a un futuro sempre più caldo. Tuttavia, non mi spaventa la fase che seguirà al nostro progetto e che sarà seguita da un partner locale. Anche se è un Paese che ha perso molti skill, ha una grande tradizione progettuale e costruttiva.

Cosa vi chiedono i vostri committenti?
La nostra fortuna è che i soggetti con cui abbiamo lavorato richiedono grande attenzione alla qualità e al tema ambientale.
Ma forse è merito anche nostro lavoro. I soggetti promotori di progetti nel campo della cooperazione oggi chiedono bellezza e sostenibilità, qualcosa che quando abbiamo iniziato nel 2004, era quasi da pionieri.


Questa è stata la grande lungimiranza di Gino Strada, che già considerava l’architettura come uno strumento di cura.


Mi ricordo quando mi chiedeva ossessivamente che ci fossero dei fiori nelle cliniche, quando tutti pensavamo a problemi come l’acqua, l’elettricità.. In realtà quando entri in un luogo dove ci sono dei fiori, prima di tutto è bello, e poi attiva parti del nostro cervello che ti fanno entrare in risonanza con quel luogo, e poi significa cura.

Come vi approcciate al progetto per un ospedale?
Noi abbiamo un rapporto partecipativo con il personale sanitario. Si va a fare un lavoro molto sartoriale secondo le procedure locali, non avrebbe senso lavorare per standard in questi contesti. Come mi ha insegnato il mio “maestro dell’architettura”, che per me è proprio Gino Strada, devi progettare un ospedale in cui non dovresti avere problemi a fare ricoverare tua moglie o tua figlia, altrimenti c’è qualcosa che non va.

In copertina: Children’s Surgical Hospital, External view by night, Entebbe, Uganda ©Emmanuel Museruka – Malaika Media

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Chiara Brivio
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