Innovazione nel processo edilizio. Prima il design o la materia?

07-02-2025 Paola Pierotti 4 minuti

07-02-2025 Paola Pierotti 4 minuti

Innovazione nel processo edilizio. Prima il design o la materia?

Al via a Milano la seconda edizione del master diretto da Ingrid Paoletti

Viene prima il design o la scelta della materia? Che relazione c’è tra la forma e la matericità? Come i progettisti possono indirizzare i produttori e dare un apporto decisivo sul cambio di produzione industriale? Le risposte a questi interrogativi sono all’attenzione della proposta formativa del master Balance Design, Digital technique and circular innovations in architecture al via al Politecnico di Milano, sotto la direzione della professoressa Ingrid Paoletti (autrice, tra l’altro, della pubblicazione “Siate materialisti”, Einaudi edizioni) che a thebrief racconta il senso della rivoluzione in atto.


La partita è aperta, e riguarda il mondo dell’architettura, dell’ingegneria e delle costruzioni e tiene insieme tecniche digitali e circolarità, in stretta relazione con i requisiti del mercato e le nuove normative, alla ricerca di sostenibilità


Come sempre è una questione di competenze: «servono esperti di rigenerazione e di chi fa scouting di materiali: il design senza attenzione alla matericità, e la materia grezza senza forma, sono due estremi che sono meno fertili dell’incrocio delle due» commenta Ingrid Paoletti.

Professoressa, ma quindi, viene prima il design o la materia? Quanto uno influenza l’altro?

Come per molte cose ci sono dei cicli: c’è stato un periodo, con il design parametrico, in cui è stata prevalente l’attenzione alla parte digitale, ora si riscontra un ritorno alla materia. Tanti progettisti e istituti di ricerca lavorano dal basso, con la materia, si influenzano molto e lo spazio di ricerca più interessante, secondo me, sta proprio dove si computa la materia e la si rende subito fattiva nel progetto.

Quali sono i driver per la scelta del “materiale” corretto quando si fa architettura?

Il punto di partenza è l’osservazione. In questi tempi di velocità e di consumo dell’informazione, che ormai è assolutamente e ampiamente disponibile, osservare il luogo, gli attori, il tipo di utenza che userà lo spazio, penso possa essere un ottimo punto di partenza per la scelta dei materiali, anche legandosi alle nostre tradizioni costruttive. Soprattutto in questo tempo di incertezza e complessità, le radici possono essere un modo per rivalutare la nostra capacità di scelta.

Mad Architecs, Snøhetta, Acpv Architects, GiòForma, Henning Larsen, Zaha Hadid Architects. Questo è un lungo elenco di nomi dell’architettura internazionale che racconta le transizioni in atto nel rapporto tra creatività e materia. Dove ci sta portando questa rivoluzione?

Questi nomi sono tra quelli che ci accompagnano nel master del Politecnico di Milano, “Material Balance Design”, giunto alla sua seconda edizione, e la nostra idea è quella di lavorare con loro, insieme a produttori e sviluppatori, per creare un campo dove gli attori non sono più una filiera lineare, ma riescono a comunicare, come vasi comunicanti, in modo quasi orizzontale. È questa l’unica soluzione, secondo me, per arrivare fino all’utente finale, unendo il filo, dal progettista allo sviluppatore a chi vivrà l’architettura. Questi studi sono rappresentativi di una comunità che ha la capacità di indirizzare questa rivoluzione. Parlerei di “consapevolezza consistente”, per l’abilità nel legare idea e realizzazione, evitando di avere da un lato concept molto vaghi e render molto belli, e dall’altra, costruzioni che rispondono a logiche di cantiere e di filiera, con una compressione di costi che fa sì che alla fine si arrivi a compromessi distanti dall’approccio iniziale.

Riuscire a far lavorare insieme tutti gli attori, crea quel campo che può effettivamente generare innovazione.

Salute, sostenibilità, digitalizzazione. Sono sempre di più gli specialismi che possono anche essere nelle corde di un singolo professionista, che sa tenere insieme la complessità. Che competenze nuove devono avere i progettisti del futuro? Come si coltiva un approccio olistico (e non superficiale)?


La chiave sta nel saper avere poesia quando si disegna il dettaglio


Non si può delegare la costruzione all’impresa. Serve mantenere un approccio ampio e umanistico, ma anche verticale, inteso con la capacità di padroneggiare il processo, dove la materia può fare la differenza nel linguaggio.

Serve avere spirito critico, buon senso, per entrare nel merito delle diverse soluzioni che sono in grado di costruire un edificio di qualità, sotto la lente appunto della salute, della sostenibilità, e dei dati. Immagino un approccio orizzontale.

Concretamente?

Si può disegnare un sistema di facciata sapendo che potrà indirizzare la produzione. La strada è quella della cosiddetta mass customization, verso una produzione di massa ma personalizzabile, che oggi è la risposta anche a tante questioni ambientali, che richiamano i temi del riuso, dello scarto, senza un approccio naïf. Quando il progettista è consapevole della materia, può indirizzare il produttore: invece di fare un progetto e affidarsi a tre o quattro produttori, può realmente cambiare la produzione industriale, come hanno fatto i protagonisti dell’architettura degli anni d’oro, da Angelo Mangiarotti a Gio Ponti per fare due esempi.

Qualche innovatore internazionale che può fare scuola?

Assemble. Che è uno studio che richiama questa tendenza ibrida, riesce a dare forma al dettaglio, a plasmarlo, pur mantenendo la sua identità.

E tra le giovani generazioni in Italia?

I primi tre nomi rappresentativi di questa nuova tendenza sono A-fact, giovani “pratici” con una grande attenzione alla cantierabilità, partendo dal design. Arpostudio, che lavora con materiali bio-based e tenta di fare uno scale up portando la ricerca in cantiere. E ancora, i giovanissimi di Bakastudio architettura, uno studio di ricerca, all’avanguardia nel settore.

In copertina: Dreamachine in Murrayfield Ice Rink, Edinburgh © Andrew Perry

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Paola Pierotti
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