24-01-2022 Paola Pierotti 12 minuti

Incerti e bda: passione e lentezza, per un’architettura artigianale e innovativa

Partecipazione attiva, studio e aggiornamento continuativo per una storia di architettura indipendente. Critiche al mondo della comunicazione e all’establishment di settore

Per me il lavoro non può prescindere dalla politica, da “valori”. E ho cominciato a capire che avevo bisogno di una dimensione altra. Più veramente sostenibile. Più piccola, più lenta.
Guido Incerti

Credo che l'architettura italiana stia abbastanza bene. Non parlo del modello in cui dobbiamo operare, assai critico, come ovunque, ma del fatto che osservando quotidianamente il mondo che mi circonda e continuando ad avere una certa predilezione allo studio e all'aggiornamento, mi ritrovo a vedere qualità architettonica nei posti più inaspettati. Spesso a scale piccole e medie. Raramente in quella grande e a livello urbanistico: sono convinto che gli architetti oltre una certa scala non siano capaci. Ovviamente molte criticità rimangono, il mondo sarebbe noioso altrimenti». Guido Incerti, architetto, gavetta internazionale e primi passi mossi con Diller Scofidio + Renfro, nel 2014 ha fondato bda bottega d'architetti. Autore della pubblicazione “Atlante dei paesaggi riciclati”. Una storia di “architettura indipendente” che non risparmia critiche alla comunicazione, “muscolare”, come la definisce lui: «si pubblicano quasi sempre gli stessi e le stesse cose. Una noia mortale. Ma il mondo è assai più variegato. Il bello di questo è che le sorprese che si vivono, i progetti trovati inaspettatamente, sono sempre più lieti». Partecipazione e impegno civico e politico per Incerti, anche nelle istituzioni, con un ruolo recente nell’Ordine degli Architetti di Bologna.

In un tuo post su Instagram hai lasciato un messaggio: “Ma che premio di architettura è se per partecipare ti chiedono di pagare?”. Ci dai qualche dettaglio?

Il mio punto di vista è semplice, un Premio di architettura è un Premio di architettura. Non un business a pagamento. Hai mai sentito che il vincitore del Nobel o dell'Oscar o del Pritzker abbia pagato per partecipare? Ma anche solo, che so, di quello che è il Premio Oderzo. Magari pagavi le spese di spedizione per la domanda cartacea e il book di progetto. Oggi nemmeno quelle. Ma un premio è un premio. Qualcosa di speciale dove qualcuno che ci capisce da un riconoscimento a chi è meritevole di riceverlo. Non un qualcosa dove fare soldi sulla speranza, degli architetti paganti in questo caso.

Una critica aperta al mondo della comunicazione di settore?

Qui è molto semplice: non fa critica. La gran parte segue le regole di una comunicazione “muscolare” dettata da chi può. Spesso gli articoli sono solo una rivisitazione della cartella degli uffici stampa, appunto di chi se li può permettere. Nessuna critica, nessuna osservazione scomoda, nessuna lettura profonda, che vada oltre il perimetro del progetto. E oggi che comprendiamo quasi tutti il valore ecosistemico e il modello relazionale in cui operiamo, questo non è più possibile. Non si può continuare a sostenere e procrastinare la trappola cognitiva in cui ci stiamo infilando. Ovviamente questo prevedrebbe il fatto che molti che scrivono partissero dal presupposto di sapere di non sapere, e quindi la necessità di approfondire a 360 gradi. Ma non sempre c'è il tempo, se sei nel sistema guidato dagli algoritmi di indicizzazione e se nessuno si prende il rischio e il coraggio di scontentare qualcuno.

In pillole il tuo percorso dall’università ad oggi…

Durante il percorso di studi a Venezia, dallo Iuav mi spostai in Olanda, a Delft, come free mover e non con l'Erasmus – perché lo ritenevo il miglior posto per studiare e lavorare e dove vedevo capitare le cose. Dopo la laurea mi sono spostato all'estero, negli Stati Uniti, a New York per la precisione, da DS+R, e poi rientrato in Italia ho lavorato presso uno studio fiorentino oggi quotato, ma che mi fece capire tante cose, anche gli sbagli da non fare. A Firenze feci il mio dottorato e nel mentre misi su uno studio con degli amici: nEmoGruppo. Lo studio è via via cresciuto, fino ad avere sedi da Milano al Medio Oriente, facendo progetti anche in Cina, vincendo concorsi e riconoscimenti quali la menzione d'onore al Compasso d'Oro. Ma ad un certo momento ho capito che stavo sbagliando. Che mi stavo infilando in una trappola di vita, prima ancora che professionale. Innanzitutto, guadagnavo poco, ma soprattutto non potevo sopportare questo sacrificio lavorando in paesi dove la mia socia era vista come “qualcosa” e non come qualcuno. O dove le abitazioni hanno impianti elettrici da 40 kWh. O dove era evidente che non si riuscivano a comprendere pienamente certe culture o dove certi valori non collimavano. Dove assistevo ad uno smodato consumo di storia e di risorse e dove il mercato del lavoro vede situazioni semi-schiavistiche, se non totalmente schiavistiche. Insomma, tutto quello che c'è dietro lo sbrilluccichio dei lustrini e delle luci. Mi sono politicamente radicato. E per me il lavoro non può prescindere dalla politica, da “valori”. E ho cominciato a capire che avevo bisogno di una dimensione altra. Più veramente sostenibile. Più piccola, più lenta, puramente di riuso, riciclo o rigenerazione, più condivisa con le poche persone con cui lavoro. Ma anche più curata, più artigianale ma non per questo meno innovativa. Almeno per me. 

E nel 2015 è stata aperta la vostra Bottega d’Architettura. Che tipo di organizzazione? Un bilancio? Qualche dato?

Stiamo cominciando oggi a raccogliere i frutti di anni di sacrificio e lavoro. Dopo la mia uscita da nEmo lavorai per un po' di tempo per un altro studio, ma poi quasi per caso, anche grazie ad amici che mi hanno coinvolto in loro lavori, mi sono ritrovato a lavorare a dei miei progetti anche “importanti” e da lì sono ripartito nel 2015. Le reti dormienti si sono attivate. Oggi i clienti paiono arrivare e non li devi per forza andare a cercare, anche se quella parte è sempre ed ovviamente presente. Il passaparola comincia a funzionare, specie da quando ho centrato vita e studio a Bologna, città nella quale sono arrivato per il puro piacere di voler vivere qui. L'organizzazione della bottega è molto tranquilla.


Siamo in tre. Io e due miei ex studenti oggi bravissimi urbanisti, architetti e interior designer. Gente di passione.


Siamo passati dall'essere studente e professore, ad amici. Lavoriamo in studio o da remoto. Siamo liquidi, ma non troppo. Tutti abbiamo anche interessi altri dallo studio. Chi fa il dottorato, chi segue anche progetti artistici, chi insegna. La tendenza è in crescita, stante sempre il livello di crescita cui Bda punta. Cioè non troppo. Se si vuole lavorare con i giusti tempi e la giusta sensibilità e sostenibilità. Anche personale. 

L’ultima opera ultimata?

La riqualificazione e ampliamento di una casa unifamiliare cui, grazie ad una sanatoria, abbiamo progettato, entro il volume principale, un piccolo spazio, un appartamentino indipendente per il figlio. E grazie ad una domanda postaci della madre, abbiamo scoperto che il progetto originale non aveva sfruttato tutta la volumetria ammissibile così abbiamo ampliato la parte dei genitori. Un progetto di quelli totalmente sartoriali che piacciono alla nostra bottega.

E l’incarico più recente ottenuto?

Sono piovuti in dieci giorni. La riqualificazione di un casolare in Toscana e, cosa singolare, la riqualificazione di un piccolo museo che dovremo trasformare in abitazione. Facendo così l'inverso di quello che molti architetti desiderano. In più la riqualificazione di un appartamento a Bologna, il cui spazio, grazie alla fiducia che ci hanno concesso i giovani committenti, ruota attorno ad un polmone verde che fungerà da elemento di purificatore dell'aria. Un po' sulla linea delle ricerche di Stefano Mancuso e di Pnat, la sua start-up. Fortunatamente entrambi i miei clienti sono agronomi e potranno ben prendersi cura delle piante.

La tua città, Bologna, nei prossimi anni. Quale promessa e quali aspettative in termini di “visione” urbana?

Le volte che ho sentito parlare il nuovo sindaco mi è sembrato fosse più preoccupato di come spendere i soldi del Next Generation EU piuttosto che di una vera visione urbana. Ho sentito cose che alle mie orecchie risultano anacronistiche, tipo aumentare le dimensioni dell'aeroporto, per aumentare il numero di voli e passeggeri, e credo conseguentemente la CO2. Hanno da poco approvato il passante di mezzo, che ovviamente incrementerà il traffico. Usando però la magica parola “compensazione”, seguendo una visione puramente economica, infrastrutturale e non evoluzionistica. Ma è stata approvata anche la tramvia. Poi l'ho visto, allora assessore, in campagna elettorale presentare un sistema di parchi, una sorta di cintura verde, con al suo fianco Massimo Iosa Ghini, che proprio un grande paesaggista non è. Non lo so. Ho pensato che gli servissero quei voti lì. Questo è quanto vedo come cittadino come propaganda. Poi però osservo il sistema di governance che sta cercando di realizzare, una strutturazione trasversale tra gli assessorati, e che molti dei nuovi amministratori sono giovani e anche un po' “incazzati”. Vediamo se riusciranno a produrre politiche innovative. Come “Vision” in realtà, però, non la percepisco. Non vedo progetti visionari come fu il piano di Bologna del ‘60, del quale ovviamente abbiamo solo poche tracce, una delle quali la Fiera di Kenzo Tange.

In un altro tuo post accennavi al tema della città post-pandemia con soluzioni che richiamano quelle degli anni ‘60, ‘70. Che idea ti sei fatto sull’eredità di questo tempo? Una lezione? La via della città dei 15 minuti o l’attenzione sui borghi, per fare due esempi… sono strade che condividi?

Beh, i piani degli anni ‘60, ‘70 vedevano una presenza della componente progresso e speranza di miglioramento, giusta o sbagliata che fosse, che oggi non percepiamo. Oggi pensiamo che il declino di un modello socio, economico e logistico – cui non ci vogliamo arrendere nonostante tutte le evidenze scientifiche che abbiamo sotto gli occhi – possa solo essere negativo, non immaginando che un declino può anche essere bellissimo e mettere le basi per un successivo rinascimento e non solo… per la rovina.

Circa la “città dei 15 minuti” e la rigenerazione dei piccoli borghi sono strade che condivido entrambe. Non posso però far finta di non vedere i dati che dicono che tra non molti decenni la grandissima parte della popolazione mondiale vivrà in grandi aggregati urbani. Sono, entrambe, anche strade che potranno esistere o meglio co-esistere solo se la politica, la ricerca, la scienza e la società riusciranno ad alienarci da quella trappola evoluzionistica che stiamo costruendo, anche per mezzo delle nuove tecnologie, dove il rapporto interpersonale e l'empatia sociale stanno svanendo. Puoi vivere anche in una città con tutto a portata di mano in 15 minuti, ma questo serve a creare più socialità o solo più produttività? E se sei solo tu e il tuo smartphone, con la necessità di dare risposte tempestive al “mercato” o anche solo ad una mail, nessun borgo potrà sopravvivere.


La tecnologia doveva liberarci da alcune cose e invece ci ha reso ancora più dipendenti da altre. L'urbanistica invece dovrebbe lavorare sulla lentezza. Non sulla velocità.


Perché i processi urbani e paesaggistici sono lenti. E gli urbanisti, secondo me lo sapevano bene e lo sanno bene. Ma poi arriva il Mercato. O meglio un certo mercato. E allora salta il banco e il patto sociale tra città e cittadini.

Hai fiducia nel sistema dei concorsi? Cosa va e cosa non va oggi nel sistema, dal tuo punto di vista?

Ho fiducia solo in mia moglie, nei miei famigliari e in pochi fidati amici. Ma reputo che il sistema concorso, pur con molte criticità, rimanga sempre lo strumento migliore per cercare di assicurare una certa trasparenza nei processi e una architettura di qualità. Stante però che chi lo propone, quale strumento di progetto, ci creda fino in fondo, per mezzo di funzionari preposti edotti e dedicati a questo e che le giurie siano “buone” giurie. Che sappiano vedere il cemento oltre le fronde degli alberi nei render, o riconoscere con un ragionevole grado di certezza, dato dalla loro competenza, il miglior progetto. Senza dover rispondere ad altre necessità. Inoltre, forse sarebbe anche interessante cominciare ad esplorare nuove strade. Un esempio? Ritengo oggi assurdo che in un secondo grado con pochi partecipanti, questi debbano mantenere un totale anonimato e non avere rapporti diretti con il loro committente nella fase di definizione finale della miglior offerta possibile. Io istituirei per gli ammessi alla seconda fase, ad esempio, dei tavoli di confronto comuni committente/partecipante. Così che si possa, già in quella fase determinate, istituire quel confronto che è fondamentale per la riuscita del progetto, ma anche una competizione tra i partecipanti che porterebbe certamente al miglior progetto possibile e si eviterebbero così imbarazzi successivi.

Perché la tua scelta di impegno nelle istituzioni, con un ruolo nell’Ordine?

Perché ero curioso – se fossi stato eletto – di vedere se l'Ordine degli Architetti è quel drago sputafuoco che si dipinge da fuori, che siamo obbligati a pagare una quota annuale, e non lo è. E perché sono convinto che c'erano margini per fare cose interessanti per tutti. Perché dobbiamo aumentare la partecipazione dei nostri colleghi così da creare una comunità più unita e anche più ciarliera. Ora, nonostante la noia mortale di molti dei consigli cui dobbiamo partecipare, spesso poi vengono fuori scambi arricchenti, iniziative interessanti, e utili, per la disciplina in sé e per tutti gli iscritti. 

E quindi, come possono incidere gli Ordini per una rinnovata cultura del progetto, una necessaria sensibilità delle committenze, senza trascurare la responsabilità dei progettisti?

Devono aprirsi sempre più, diventare case per gli architetti e per l'architettura, interagire e comunicare. E specialmente devono attrarre i colleghi più giovani ma non solo, devono entrare nelle università, nelle scuole, devono narrare un modo diverso di fare ed essere architetti. Che non è solo quello apparentemente intriso di burocrazia e bassi guadagni, ma anche quello fatto di professionalità, studio, archivi, pubblicazioni, interazione con la pubblica amministrazione e non solo, per migliorare l'ambiente in cui viviamo e, anche perché no, di strutturare la formazione continua obbligatoria come un corso post-universitario dove riuscire sempre più ad ampliare le conoscenze di tutti noi per sintonizzarci non tanto sul presente quanto sul domani.  

In copertina: l'architetto Guido Incerti, fondatore di bda (bottega d'architetti)

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Paola Pierotti
Articoli Correlati
  • L’architettura inclusiva trionfa al Mies 2024, premiati Gustav Düsing & Max Hacke

  • Una città della prossimità “materiale e culturale”. Come sta cambiando Porto

  • Anci e Cni insieme per la rigenerazione urbana

  • Confindustria: “Crescita boom nel 2023 trainata dalle abitazioni”