Cos’è l’urbanistica di genere e come può cambiare le nostre città
Progettare città inclusive e sicure per tutti: l’urbanistica di genere come risposta a spazi urbani più equi e accessibili
Oltre gli stereotipi: sfide e opportunità dell’urbanistica di genere
Progettate da uomini, per le esigenze degli uomini: le città non sono luoghi a misura di donna, soprattutto di notte.
L’urbanistica di genere si propone di colmare questo divario, offrendo un modello progettuale più equo e inclusivo, dove ogni cittadino possa muoversi e vivere in sicurezza e con pari opportunità, a prescindere dal genere.
Anche se il dibattito in Italia è alquanto recente, in Europa si era già cominciato a parlare di un’urbanistica inclusiva negli Anni ‘70 e ‘80, in concomitanza con le prime riflessioni critiche sui modelli urbani tradizionali.
È del 1984, infatti, la pubblicazione del libro Making Space: Women and the Man-Made Environment, uno dei primi studi sull’interazione tra genere e spazio urbano. Opera del Matrix Feminist Design Collective, un collettivo britannico di donne architetti e designer, il testo mette in evidenza come la progettazione delle città influisca sulla vita quotidiana delle donne, evidenziando le barriere che ne limitano l’accessibilità e la sicurezza degli spazi.
Il discorso sull’urbanistica di genere va oltre la semplice distinzione tra uomini e donne. Il modo di vivere e fruire della città varia, infatti, è condizionato anche dal tipo di lavoro svolto, dal ceto sociale e dallo status economico. Anche le esigenze di gruppi sociali diversi – come anziani, bambini e persone con disabilità – sono state trascurate per molto tempo nella progettazione urbana, che manca di strutture adeguate per la mobilità di passeggini e di persone con difficoltà motorie.
Le città “riflettono e perpetuano sistemi di oppressione e disparità”, come denunciato dalla geografa canadese Leslie Kern nel suo libro La città femminista, pubblicato in Italia nel 2019. Nel testo l’autrice descrive come gli spazi pubblici continuino a rafforzare le divisioni di genere, sostenendo l’esistenza di “barriere, fisiche, sociali ed economiche che modellano la vita quotidiana attraverso dinamiche che
sono profondamente (sebbene non solo) di genere”. Secondo l’opinione della Kern, poi, le città contemporanee non permettono di immaginare ragazze adolescenti che interagiscono tra loro negli spazi pubblici, perché questi nascondono fin troppi pericoli. Per le metropoli del futuro si deve quindi puntare ad un modello alternativo rispetto quello attuale, da realizzare attraverso un nuovo modo di pensare e progettare gli spazi pubblici, più rispettoso delle esigenze di tutta la popolazione.
Perché le città attuali non sono a misura di donna?
Le routine quotidiane di uomini e donne presentano differenze piuttosto significative. Gli uomini tendono a spostarsi in modo lineare, prevalentemente in auto e su percorsi più lunghi per raggiungere il luogo di lavoro. Le donne, invece, si trovano a gestire più responsabilità. Oltre al lavoro, devo occuparsi anche della cura della famiglia o degli anziani, il che porta a spostamenti più frammentati: spesso si muovono a piedi o con i mezzi pubblici, e utilizzano l’auto solo quando strettamente necessario. È innegabile poi che le donne avvertano una carenza di sicurezza nelle strade, specialmente la notte.
Per cambiare la situazione è necessario affrontare il problema e sensibilizzare le amministrazioni sulla necessità di rendere più sicura la sfera pubblica. Ne sono convinte le architette Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro, che insieme hanno fondato a Milano nel 2022 l’associazione di promozione sociale Sex & the City, che si concentra su una lettura di genere degli spazi urbani.
L’associazione ha realizzato diverse indagini sul tema. Tra queste vale la pena menzionare Milan Gender Atlas/Milano Atlante di genere, una ricerca sulla vita quotidiana delle donne e delle minoranze di genere nella città di Milano, che ha portato alla luce dati preoccupanti sulla sicurezza nei contesti urbani. Tra le 1670 donne intervistate, ad esempio, il 65% ha dichiarato di aver subito aggressioni o minacce in strada.
Nel 2024 l’associazione ha pubblicato lo studio Libere, non coraggiose. Le donne e la paura nello spazio pubblico, che pone l’accento sull’importanza della pianificazione urbana per aiutare le donne a sentirsi più sicure in città.
Partendo dalla fotografia della situazione attuale, Andreola e Muzzonigro lanciano un appello all’azione, rivolta a cittadini e amministrazioni, per mettere in atto un cambiamento positivo affinché le donne possano sentirsi finalmente libere di vivere gli spazi pubblici, senza dover più avere paura.
L’invito a ripensare le nostre città in modo innovativo e inclusivo arriva anche da Elena Granata, docente di urbanistica del Politecnico di Milano. Nel libro Il senso delle donne per la città, uscito nel 2023, esplora come il pensiero urbano possa evolvere a partire dall’esperienza pratica delle donne, tradizionalmente escluse dai settori dell’urbanistica e dell’architettura.
Sostenitrice di una “rigenerazione minuta”, Granata propone una pianificazione a piccola scala, centrata sulle reali necessità delle persone e orientata a costruire città come ecosistemi a misura d’uomo. Per rendere tutto questo possibile, sostiene fermamente la necessità di una collaborazione tra diverse figure professionali, anche non appartenenti al mondo dell’urbanistica o dell’architettura.
In che modo si può favorire un cambio di prospettiva nella progettazione delle città?
L’urbanistica e l’architettura hanno iniziato a confrontarsi con il pensiero di genere in seguito all’affermarsi dei movimenti delle donne. Urbaniste e ricercatrici, interpretando le città con uno sguardo più inclusivo, hanno cominciato a proporre nuovi modelli per modificare le prospettive esclusivamente maschiliste che hanno disegnato le nostre città per troppo tempo.
I primi esempi di un’urbanistica orientata all’inclusività risalgono al XIX secolo. Un esempio emblematico è la Hull House di Jane Addams ed Elle Gates Starr a Chicago, una struttura di 13 edifici destinati ad accogliere e supportare gli immigrati, con alloggi, un refettorio, una cucina pubblica, un asilo, una biblioteca, uffici di collocamento e altri servizi utili. Un modello progettuale che offriva ai residenti tutto ciò di cui avevano bisogno. L’idea di combinare spazi residenziali con quelli lavorativi e le aree dedicate ai servizi essenziali contraddice la tradizionale separazione dei quartieri e dei centri amministrativi da quelli commerciali, rappresentando una delle basi della progettazione urbana inclusiva.
Dal primo esempio della Hull House a oggi, quali passi in avanti sono stati fatti verso una città realmente inclusiva?
Tra le città più all’avanguardia sul fronte dell’urbanistica di genere, Vienna rappresenta senza dubbio un modello esemplare. La capitale austriaca ha istituito un dipartimento per le politiche di genere, che supporta l’amministrazione con linee guida volte a garantire l’accesso equo agli spazi urbani. Un esempio concreto è Aspern Seestadt, un quartiere di circa 20mila persone progettato per rispondere alle esigenze delle donne: le aree pedonali superano quelle destinate al traffico, e le auto in sosta sono vietate lungo le strade, perché disposte in parcheggi multipiano illuminati e sicuri.
Gli edifici sono realizzati in cemento e in legno, hanno giardini pensili, terrazze sul tetto e tanti spazi in comune come aree co-working, sale per meditazione e yoga. Le famiglie, anche con bambini piccoli, possono muoversi in bicicletta in tutta sicurezza grazie alla rete di piste ciclabili e godersi momenti all’aria aperta nei numerosi orti urbani tra gli edifici.
Anche altre città come Barcellona, Umeå e Berlino hanno avviato progetti di urbanistica di genere. In Italia, invece, siamo ancora distanti da iniziative di urbanistica inclusiva di ampio respiro.
Per favorire il cambiamento, come suggeriscono Andreola e Muzzonigro, le città italiane potrebbero ispirarsi al modello austriaco e creare dipartimenti dedicati alle questioni di genere all’interno delle strutture amministrative.
Un approccio alternativo potrebbe partire da interventi pilota su aree circoscritte, anche se questo sarebbe senza dubbio limitato dall’impossibilità di realizzare opere strutturali su vasta scala e dalle oscillazioni politiche delle amministrazioni locali.
La strada verso città più eque, sicure e accessibili è ancora lunga, e il cambiamento, prima di essere urbanistico, deve essere culturale, coinvolgendo sia le istituzioni sia i cittadini. È necessaria, quindi, una progettazione strategica a lungo termine che tenga conto delle esigenze di tutte le parti interessate e dove la partecipazione attiva dei cittadini si rivela fondamentale. Altrettanto importante è sensibilizzare le nuove generazioni sull’importanza di creare spazi urbani dove ognuno possa sentirsi a casa e dove tutti possano godere delle stesse opportunità.
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