Concorsi-flop, 110% e “opere aperte”: i 20 anni delle architette di Arbau
Dalle questioni di genere alle sfide nella città diffusa veneta. A colloquio con Sara Carbonera e Marta Baretti
Siamo partite lavorando soprattutto alla grande scala, anche urbanistica, ma nel tempo è diventato per noi sempre più importante realizzare i nostri progetti, e quindi la crescita è avvenuta soprattutto in termini di costruzione e quindi di attenzione e sensibilità per i materiali, gli spazi, il costruito, le persone, la specificità dei luoghi». Questa è la storia di Sara Carbonera e Marta Baretti, che insieme, a Treviso, hanno fondato lo studio Arbau nel 2000. Una quindicina le opere significative costruite. Grande fiducia nei concorsi: Arbau ha partecipato a circa una settantina di competizioni in questi anni. «In una trentina – raccontano le architette – abbiamo ricevuto premi ed alcuni ne abbiamo vinti, pochissimi però sono sfociati in un’opera realizzata. Se facciamo un bilancio, sia economico che professionale, quello che riguarda i concorsi è in perdita. E questo vale per tanti altri nostri colleghi».
Un committente che per voi ha fatto la differenza?
La onlus Coges Don Milani che si occupa di progettazione sociale, servizi sociosanitari ed immigrazione, con cui stiamo lavorando ormai da un decennio. Ci ha permesso di operare su temi sociali, che rispondono alla nostra attitudine verso un’architettura etica, e con loro abbiamo avviato un processo multiscalare, occupandoci di diversi aspetti legati alle loro attività, e multidisciplinare con artisti, psicologi e neuropsichiatri per noi molto stimolante.
C’è un’opera che riconoscete come quella che vi ha fatto fare “il salto”?
Leggiamo il nostro percorso professionale di questi vent’anni come una crescita costante, una maturazione lineare in termini di linguaggio ed occasioni, senza grandi salti. Spesso trasformando le richieste più banali in occasioni per sperimentare concretamente l’architettura. Abbiamo sviluppato una nostra attitudine in un metodo di lavoro che applichiamo a prescindere dalla scala dell’intervento, ritenendo che l’architettura debba interessare gli spazi della quotidianità.
Una tra le tante?
Un’opera a cui siamo particolarmente legate è la Ghaus, tra le prime case in legno nel nostro territorio, che è stata un’opera di sperimentazione, ma anche una costruzione quasi sartoriale, e che ci ha fatto conoscere grazie alle numerose pubblicazioni nazionali ed internazionali e ai riconoscimenti ricevuti. Per noi ha segnato un salto anche dal punto di vista dell’interesse per un certo modo di concepire la costruzione in architettura.
A proposito di salto, potremo anche parlare di “salto mancato” se pensiamo ai tanti concorsi importanti vinti, che non hanno avuto seguito e che per questo hanno segnato fortemente il nostro percorso.
Per voi i concorsi sono un mezzo per un procurement ottimale, ma..
C’è qualcosa che non va nel meccanismo dei concorsi, anche se ultimamente vengono svolti con maggiore serietà. A parte quello indetto dal Miur per le 50 scuole innovative, peraltro il più grosso concorso per la realizzazione di opere pubbliche in Italia, che noi abbiamo vinto a Cervignano del Friuli. Il concorso è stato fatto, la scuola verrà realizzata, e quindi il processo arriverà a conclusione: ma non saremo noi vincitori a fare il progetto. Una vicenda che, non nascondiamo, ci ha amareggiato e scoraggiato molto, sia dal punto di vista professionale che personale.
Abbiamo da poco iniziato a lavorare al progetto di una scuola innovativa a Feltre, ottenuto tramite una gara, dove abbiamo la possibilità di sperimentare concretamente le ricerche sulla didattica innovativa già iniziate proprio col progetto vincitore del concorso “Scuole Innovative”, per Cervignano, ma interrotte con l’affidamento del progetto definitivo-esecutivo ad un altro raggruppamento, guidato dai C+S Architects.
Il progetto più interessante che vi vede in campo in questi mesi?
Continua la nostra “opera aperta”, una struttura socio sanitaria per la cura delle dipendenze ospitata a Forte Rossarol, un’area militare dismessa e vincolata nella terraferma veneziana, cui da quasi dieci anni stiamo lavorando, insieme a neuropsichiatri dell’università di Verona e psicologi del centro, su diversi aspetti con un approccio che tiene insieme cura e qualità dello spazio, e dove si stanno aprendo nuovi sviluppi in seguito sia alle rinnovate esigenze terapeutiche del centro, in continua sperimentazione e apertura verso la cura di nuove forme di dipendenza, sia alle possibilità offerte dall’attuale quadro normativo (ad esempio il 110%).
Ma per noi sono interessanti anche alcuni piccoli progetti di riqualificazione, trasformazione ed ampliamento di edifici residenziali esistenti di scarsa qualità, la cui riprogettazione la viviamo come una sfida aperta contro il degrado edilizio della città diffusa.
Ma come sta secondo voi l’architettura italiana?
Bene, dal punto di vista della qualità dei progettisti: ci sono molti progettisti interessanti, di cui tanti giovani; male se guardiamo all’architettura costruita e delle città. C’è una grande sproporzione tra le energie e le risorse progettuali e il risultato in termini di realizzazioni e di capacità di incidere realmente sul nostro territorio. Sia per la mancanza di una domanda pubblica di livello, sia per il tecnicismo delle procedure di affidamento degli incarichi. Spesso è la committenza privata a dar fiducia ai professionisti, ma dovrebbe essere il pubblico ad investire sulla qualità architettonica.
E invece è come se si pensasse che all’architettura spetti di occuparsi di opere di grande impatto comunicativo, ma poi quando c’è veramente da intervenire in modo strutturale e diffuso, si investono risorse ed energie solo su questioni meramente tecniche (ad esempio la rigenerazione energetica e di sicurezza sismica).
Tornando sul Superbonus: con il 110% si può fare architettura?
Si può, ma solo in parte e solo “aggirando” forzosamente il meccanismo della legge, che non fa nessun riferimento alla qualità architettonica, ma si basa solo su parametri tecnico-economici, come del resto, ad esempio, tutti gli investimenti per l’efficientamento energetico o sismico delle scuole, utilizzati per riaggiustare edifici vecchi sia fisicamente che funzionalmente. In tutti questi casi certo che si può fare architettura se c’è un progettista disposto a fare i salti mortali per trasformare un cappotto termico in un’occasione per un piccolo episodio di qualità. Ma il problema è mal posto. Paradossalmente al termine di tutte queste operazioni la situazione in taluni casi potrebbe essere peggiorata perché alcuni edifici di pessima qualità architettonica, o collocati in aree urbanisticamente inadeguate, diverranno inamovibili per decenni, perdendo così la sfida di un vero rinnovamento qualitativo territoriale.
Un esempio concreto che vi vede coinvolte?
Stiamo lavorando con il Superbonus, principalmente con una onlus che in questo modo riesce a fare un’operazione di riqualificazione di alcuni spazi in cui svolge le sue attività che altrimenti non avrebbe la forza economica di affrontare. Abbiamo appena concluso la riqualificazione della loro sede a Mestre e stiamo iniziando quella di un edificio, altrimenti abbandonato, che verrà destinato ad un’utenza fragile.
Inoltre, stiamo intraprendendo operazioni più complesse di demolizione e ricostruzione in un’area militare dismessa che hanno in gestione dal Comune di Venezia, ma lo sforzo per ottenere un risultato architettonicamente significativo è sproporzionato e assurdo dal punto di vista burocratico e procedurale.
Nell’ultima Biennale di Venezia, nel padiglione italiano siete state raccontate in una ricerca Rebel Architette. Su 140 storie, Arbau rientra nel 7% dei team tutti al femminile (37% hanno unica fondatrice, 56% sono coppie uomo e donna). Cosa significa per voi accendere i riflettori su questo tema?
Le Rebel hanno fatto un gran lavoro e molto democratico, andando a caccia di architette più o meno famose in tutta Italia e nel mondo, e dimostrando, anche numericamente, come vi sia una presenza enorme, ma ancora invisibile, a maggior ragione se poi gli studi sono totalmente al femminile. Questa indagine, che si accompagna ad altre attività per la questione di genere nell’architettura, come il timbro “architetta”, ha dimostrato come il problema non stia nei cantieri, dove la figura femminile è spesso ormai la norma, ma nelle occasioni progettuali, nella mancanza di politiche inclusive che consentano alle donne di poter svolgere autonomamente la propria professione.
A Roma il Maxxi ha dedicato una mostra alle donne-architetto. Ce ne sono molte, ma ne mancano tante altre. Tra le assenti: da Milano a Roma, Patricia Viel e Guendalina Salimei per fare due esempi, Luisa Fontana, per stare in Veneto come voi. E manca Arbau. Come leggete questa selezione?
Tutte le selezioni hanno dei limiti, derivanti dal fatto che chi seleziona tendenzialmente parte da ciò che conosce o che gli viene segnalato e quindi ogni selezione è parziale, ma questo in generale. Molte delle architette esposte in quella mostra erano per noi sconosciute, come probabilmente noi per loro, e quindi è già un bene che abbiano un’opportunità di visibilità accanto ad altre più note.
Siete vincitrici del premio Anna Taddei, dedicato alle progettiste donne. Cosa significa per voi?
Un riconoscimento innanzitutto di un modo di lavorare, basato sulla cura e sulla passione che mettiamo in ogni progetto, per quanto “economico”, che deriva dal rispetto verso il committente e dalla volontà di fare un’architettura non formale ma sostanziale, da vivere più che da mostrare.
Ci siamo sentite onorate di rappresentare, in un certo senso, le tante architette italiane che realizzano opere di qualità, ma che generalmente hanno meno visibilità dei colleghi uomini. E siamo contente che abbiano premiato uno studio con una formazione interamente femminile, perché le donne nella nostra professione fanno molta più fatica ad ottenere lavori importanti. La grande committenza, prettamente maschile in Italia, fa ancora fatica a fidarsi delle donne; quindi, iniziare a mettere in luce il lavoro di alcuni studi femminili attraverso premi e iniziative dedicate può aiutare a fare quel salto culturale verso una vera parità di genere.
A nessuno piace stare nei recinti, che siano generazionali o di genere, ma noi donne non dobbiamo sentirci sminuite perché sono iniziative dedicate a noi, così come non lo sono quelle dedicate agli “under”. Nel nostro ambiente è molto comune sminuire premi e iniziative dedicate alla parità di genere, spesso commentate con superficiale sarcasmo, anche dalle donne stesse, che invece dovrebbero sostenerle pensando a quanta più fatica facciamo per ottenere risultati significativi. Per questo crediamo che passare dalle quote rosa sia fondamentale, anche nel nostro lavoro, per fare spazio a tante donne preparate, togliendo spazio a troppi uomini inadeguati rispetto al ruolo che rivestono.
Altro “recinto”, quello territoriale. Come descrivereste il mercato della progettazione in Veneto?
In Veneto c’è un buon livello di progettazione, nel senso che ci sono brave architette e bravi architetti, grazie anche in parte alla committenza privata; c’è ancora molto da fare in termini di cultura del progetto da parte delle amministrazioni, se si pensa ad esempio al tema dei concorsi di cui si parlava prima, ancora troppo poco utilizzato o utilizzato male. Sarebbe interessante poter indirizzare queste risorse non tanto per realizzare opere puntuali di qualità, quanto per aprire scenari di sviluppo diversi, magari legati alla rinaturalizzazione del suolo, al riuso/sostituzione/riqualificazione dello scarso patrimonio edilizio della città diffusa, fatto da casette e capannoni parzialmente abbandonati, legati ad un modello sociale e di sviluppo economico ormai obsoleti.
In copertina: le architette Sara Carbonera and Marta Baretti, fondatrici dello studio Arbau
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