02-08-2021 Paola Pierotti 10 minuti

Boddi dalla Toscana a Londra, una gavetta nel team di Bjarke Ingels fino a diventare partner

L’Italia nel team di BIG. Storie di professionisti italiani creativi curiosi e hard worker

«i progettisti italiani generalmente ritengono di saper fare meglio di altri, per genetica, ma oggi ci sono professionisti incredibili in Paesi come il Vietnam, il Cile, la Cina. Senz’altro va aggiornato anche l’apparato didattico».
Lorenzo Boddi

C’è anche la bandiera italiana nel top management dello studio internazionale BIG-Bjarke Ingels Group. Nelle scorse settimane lo studio guidato da Bjarke Ingels ha annunciato sette nuovi partner, 33 nuovi associati e un nuovo direttore. Tra i partner in particolare c’è Lorenzo Boddi, laureato all’Università di Firenze, con un’esperienza nello studio Mdu di Prato (anche insieme all'attuale assessore all'urbanistica della città, Valerio Barberis) ed entrato per la prima volta in BIG Copenhagen come stagista. Dal 2016 lavora nel team di BIG London e dà forma ad alcuni dei progetti più visionari dello studio, compreso il neonato progetto milanese di Citylife per Generali. Insieme a lui, anche Giulia Frittoli, laureata al Politecnico di Milano, con un’esperienza nello studio olandese di West8 e da tre anni con BIG a Copenhagen, leader del team BIG Landscape.

Lorenzo BoddiTre progetti per raccontare la crescita di Boddi in BIG. Sulle rive del fiume Garonna, a Bordeuax, è firmato BIG il nuovo Méca, una Casa dell'Economia Creativa e della Cultura. «Quando sono entrato nello studio, quasi dieci anni fa, è stato il primo progetto a cui ho lavorato, ero uno stagista – racconta l’architetto italiano – non conoscevo nessuno e ho imparato fin dal primo giorno, ogni giorno. Da subito mi hanno chiesto un’opinione, l’ho data e l’abbiamo testata. Ho assorbito così la forza di BIG: ascoltare ogni voce interna al team che è costituito da persone curiose, critici e senz’altro tutti hard worker. Finché non si trova la soluzione perfetta che soddisfa tutte le richieste del progetto, non ci si ferma». Il Méca per Boddi è un progetto con un programma funzionale di valore, non richiesto dal brief: una finestra urbana dove tre istituzioni si sono integrate intorno ad uno spazio urbano. «Eravamo degli outsider, in questo concorso ci confrontavamo anche con Sanaa, e abbiamo vinto». L’opera oggi è costruita e inaugurata da un paio d’anni.

Da Bordeaux a Francoforte con la torre Omniturm. «Quest’altro progetto – racconta – è nato nel 2015, è stato il primo concorso che ho vinto come project leader. Si tratta di un edificio alto 190 metri in un quartiere finanziario, mono-funzionale: la nostra sfida è stata quella di proporre una torre mixed use introducendo una quota di alloggi, rispondendo alle richieste della Municipalità e al contempo cercando di garantire il massimo valore commerciale al committente». La parte dedicata all’housing è stata inserita a metà altezza, «abbiamo shiftato la parte centrale – racconta – proponendo dei balconi esterni per evidenziare il cambiamento programmatico. Un progetto rivoluzionario per quest’area urbana, con un innesto pensato per portare vitalità 24 ore su 24».

Il terzo progetto, al momento il più significativo della carriera professionale di Boddi, è a Milano ed è il Portico di Citylife, nato da un concorso vinto a fine 2019 appena prima dello scoppio della pandemia. «E’ un’architettura incredibile per l’offerta di spazi pubblici nell’ambito di un’operazione privata. Abbiamo preso il brief iniziale e lo abbiamo quasi capovolto, ci siamo detti o arriviamo ultimi o vinciamo. Ci chiedevano due torri ma – spiega – analizzando il contesto, abbiamo proposto una soluzione di completamento di uno dei più ampi progetti di rigenerazione urbana europea qual è CityLife. Abbiamo scelto di non competere con le tre torri, ma di completare l’ultimo tassello con un edificio legato da una grande copertura estesa per 120 metri, quasi sospesa. Anche qui – come per gli altri progetti di Bordeaux e Francoforte – ci siamo inventati un programma che non esisteva, partendo da un’attenta fase di ricerca. BIG – dice Boddi – è sinonimo di curiosità ossessiva, ci alleniamo a trasformare i limiti progettuali in occasioni».

Dove va l’architettura internazionale? Boddi è uno dei tantissimi professionisti italiani all’estero. Ha scelto la strada del grande studio, e si è affermato in una delle società più quotate e di tendenza del mondo dell’architettura internazionale. Nonostante ciò, rileggendo l’evoluzione del mestiere dell’architetto negli ultimi 10, 20 anni, sottolinea che oggi «sta venendo meno la celebrazione del gesto architettonico. Oggi gli architetti non cercano la bellezza fine a se stessa, sono progettisti di ecosistemi, dove si cerca di canalizzare i movimenti delle persone e delle risorse, con attenzione alla sostenibilità a livello sociale e ambientale. Si progetta qualcosa che è parte di un sistema più ampio e ambizioso».


Con uno sguardo all’Italia, Boddi sottolinea «ancora una generale assenza di spazio per l’architettura e la fatica nell’affidarsi ai giovani, che potrebbero essere coinvolti attraverso concorsi o con preselezioni come si fa all’estero, anche in competizione con colleghi di altri paesi».


Al contempo va fatta un’autocritica: «i progettisti italiani generalmente ritengono di saper fare meglio di altri, per genetica, ma oggi ci sono professionisti incredibili in Paesi come il Vietnam, il Cile, la Cina. Senz’altro va aggiornato anche l’apparato didattico: senza cancellare l’identità dell’Università italiana attenta alla storia alla ricerca critica non si può non guardare alla contemporaneità. Penso anche all’importanza della narrativa, alla capacità di esporre, parlare, aprirsi verso l’esterno».

E come si fa a motivare un cliente che vale la pena investire in architettura? «Un progetto di qualità vale l’investimento, resiste alle mode e alle tendenze e spesso riesce anche ad anticipare direzioni che la società sta prendendo. Solo così i progetti possono essere resilienti ai cambiamenti». E la pandemia è stata un test di cosa ha funzionato e cosa no. «Per il Portico di Milano ci siamo dovuti interrogare sul futuro delle città e quello degli uffici, in pieno lockdown. L’attenzione agli spazi comuni – spiega – si è rivelata la soluzione. L’edificio direzionale sarà circondato da balconi appesi che ricordano le tipiche case di ringhiera milanesi, ma sono anche un elemento di apertura sull’esterno. All’interno ci sono spazi a doppia altezza per facilitare scambi tra le persone ed efficientare la ventilazione naturale. Ancora, abbiamo interpiani di 3,84 metri e vetrate di 3,2, andando ben oltre i 2,7 minimi previsti dalla norma».

Borghi o nuove forme di urbanità? Quale futuro post-pandemia e quali lezioni dalle città? Boddi cita Stefano Boeri e sottolinea il ruolo dei borghi italiani, l’arcipelago dei borghi «come modello di spazio urbano bilanciato, con un equilibrato rapporto tra natura, densità, diversificazione e mix di programmi, dove le comunità si sono dimostrate più resilienti in questa pandemia». Da Parigi, con il progressivo allontanamento dell’uso dell’auto privata, a Londra, con la riconversione di aree industriali senza eliminare la storia com’è stato a King’s Cross. In Italia, da Milano «che incredibilmente si sta trasformando, con una rivoluzione incentrata sul verde», a Prato, dove Boddi cita lo stesso Barberis, è lungo l’elenco delle città che hanno qualcosa da insegnare. Ma il neo-partner di BIG ne individua tre che hanno a che fare con il suo percorso auto-biografico.

Copenhagen. «Si è trasformata lentamente, è l’emblema dell’utopia contemporanea – racconta – grazie alla propria conformazione fisica prevalentemente pianeggiante ha puntato tutto sulla micro-mobilità, sulla bicicletta. E poi ha creduto nella trasformazione delle infrastrutture industriali in infrastrutture sociali». Un esempio è l'impianto di Copenhill, firmato BIG, dove il termovalorizzatore è stato arricchito con un programma ludico. E poi ancora, il capoluogo danese si è allargato verso il mare, «creando sistemi sostenibili che hanno fatto crescere il valore immobiliare, sempre con attenzione allo spazio pubblico come punto di forza».

Si chiama Black Rock City la seconda proposta che Boddi seleziona nella sua terna di città che fanno scuola. Ogni anno dal 1991 qui si tiene il cosiddetto Burning Man, un festival di otto giorni che fa vivere la città solo una decina di giorni; siamo sulla distesa salata del Deserto Black Rock nello Stato del Nevada. «Ogni tre anni lo studio BIG organizza un viaggio per tutti i collaboratori. Il mio primo era stato a Tokyo nel 2012, per 10 giorni siamo andati a studiare l’architettura giapponese. Stiamo organizzando il prossimo. Nel 2018 siamo stati proprio a Black Rock City dove abbiamo prodotto una nostra installazione. Questa – racconta – è una città incredibile perchè è capace di rigenerarsi ogni anno, sparisce senza lasciare traccia. Nella parte centrale ci si muove in bici, senza regole, è un movimento fluido e caotico, ma senza incidenti. Una sorta di danza destrutturata, senza coreografo. Forse un immaginario plausibile per quando prenderà piede la guida autonoma?».

New York City è la terza città a cui ispirarsi, «estremamente attuale per la sua capacità di affrontare le crisi e accelerare alcune idee di futuro». Boddi riprende le parole di William Gibson, «il futuro è già qui, solo non è stato ancora equamente distribuito», che sono anche nell’incipit dell’ultimo libro di Bjarke Ingels, "Formgiving", e ricorda com’era nato Central Park, un vuoto nel cuore della Grande Mela. Oggi New York sta attivando strategie per la riconversione del ponte di Brooklyn per ridistribuire i flussi nelle diverse carreggiate e contrastare l’egemonia dell’auto. Lo stesso BIG ha partecipato con una soluzione progettuale al post uragano Sandy: una barriera verde (Dryline) che si sta costruendo e che sarà una striscia di vegetazione per proteggere l’isola di Manhattan da inondazioni costiere e da uragani sempre più frequenti, ma sarà anche un’opportunità per lo spazio pubblico e una nuova infrastruttura sociale.

BIG in numeri. In quattro anni i collaboratori di BIG sono più che raddoppiati e oggi sono oltre 500 i cosiddetti “BIGster”. Vent’anni di ricerca, visioni, progetti e cantieri. «L'espansione della leadership riflette l'evoluzione ventennale di BIG come azienda globale con una presenza locale, sottolineata da un approccio olistico alla progettazione e allo sviluppo» si legge in una nota dello studio. Cinque gli uffici a Copenaghen, New York, Londra, Barcellona e Shenzhen. In particolare, la dedizione al paesaggio, al design del prodotto e alle operazioni di comunicazione all'interno di BIG si riflette nella nomina di tre nuovi ruoli di partner globali. Gli italiani ci sono: ora anche tra i partner. Non solo, “il 20% dello studio londinese è composto da italiani” dice Boddi e in Italia lo studio è rappresentato da Giulio Rigoni, senior project architect at BIG, che sta coordinando il cantiere di San Pellegrino Terme.

In copertina: Il Portico di Citylife. ©BIG – Bjarke Ingels Group

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Paola Pierotti
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