21-05-2021 Paola Pierotti 7 minuti

Sarkis: No architetture per una funzione che evolve, servono progetti che anticipano il futuro

Al via la 17esima Biennale di Architettura di Venezia. Trovare le risposte alle cause della pandemia

«Siamo diventati tutti cyborg. Nuove tecnologie sono penetrate nei nostri corpi per migliorare le nostre prestazioni e aumentare la nostra consapevolezza»
Hashim Sarkis

Come la pandemia ha cambiato l’architettura? Quali risposte con l’architettura? Domande che sono risuonate per mesi, con risposte multiple e mai definitive. Da Venezia, alzandosi il sipario sulla Biennale Architettura 2021, arriva la linea di indirizzo: dare una risposta alle cause della pandemia, a partire dal cambiamento climatico, considerando le disuguaglianze sociali, le migrazioni di massa, la profonda polarizzazione emersa nel mondo. «Bisogna creare piattaforme di riconciliazione, capire a fondo le cause della pandemia – ha detto il curatore della 17 Mostra, Hashim Sarkis – e risolverle, per andare avanti».


E così la 17 Mostra diventa un’occasione «per toccare, sentire l’architettura, credere nell’architettura» ha detto Sarkis in apertura di conferenza stampa.


«La presenza a Venezia è un simbolo del potere sperimentale dell’architettura». E la forza è data dal numero di protagonisti coinvolti. Tanti i nomi nuovi: il 96% degli studi di architetti coinvolti è presente per la prima volta e tra loro si conta anche una dozzina di professionisti under 35 (come ha ricordato Roberto Cicutto, Presidente della Biennale di Venezia).

Dal corpo umano alla terra, guardando la luna e tendendo allo spazio. Il tema dell’acqua è protagonista. La comunità e la ridefinizione delle relazioni si distinguono tra i principali argomenti del progetto. «Perché l’architettura è arte capace di delineare l’imprevedibile – dice Sarkis citando Paulo Mendes da Rocha – l’architettura deve essere spazio temporaneo dove la gente si raccoglie, dove si facilita l’integrazione. Non servono architetture per una funzione che evolve, ma architetture che anticipano il futuro, più resilienti e accomodanti per un tempo che cambia».

Dati e tecnologia, gli effetti sull’uomo, sugli edifici e le città. In una delle prime stanze delle Corderie all’Arsenale, Sarkis porta in mostra alcune installazioni partendo dalla considerazione che «siamo diventati tutti cyborg. Nuove tecnologie sono penetrate nei nostri corpi per migliorare le nostre prestazioni e aumentare la nostra consapevolezza. Design e architettura sanno mediare tra i nostri corpi e per i corpi, per mitigare ambienti estremi anche con l’ausilio di protesi che amplificano o proiettano la nostra presenza nello spazio». Si va dalla sfera biologica a quella domestica, geopolitica ed extraterrestre. Il racconto prosegue, sempre all’Arsenale, con le installazioni di alcuni Paesi come quello della Lettonia o dell’Irlanda. La prima ha allestito uno spazio che ha come protagonista la tecnologia che è diventata uno stile di vita, cambiando il modo di interagire con l’architettura, e il focus è sulla natura contraddittoria del rapporto con la tecnologia. L’Irlanda ha scelto il motto Entanglement per mettere a nudo la romantica metafora del cloud come spazio virtuale ed etereo. Utilizzando il prisma del calore, si esplora la materialità dei dati e degli spazi che essi producono, insieme al complesso impatto che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno a livello umano, ambientale e culturale.

Ecologia è un’altra parola chiave che ritorna e che si racconta per immagini. Come quella del progetto curato dagli italiani di ecologicstudio (Claudia Pasquero e Marco Poletto) dal titolo BIT.BIO.BOT. Un esperimento in scala 1:1 sulla «coltivazione del microbioma urbano, un test di coesistenza tra organismi umani e non umani nella urbanosfera post-pandemica. Il meccanismo dell’installazione è la fotosintesi, alimentata dall’energia del sole e dal metabolismo delle colture viventi di Spirulina platensis (uno degli organismi più antichi sulla Terra) in grado di rimetabolizzare gli inquinanti dell’aria trasformandoli in uno degli alimenti più nutrienti al mondo».

E come cambierà l’architettura dell’abitare? Prima di proporre una risposta, bisogna guardare i dati e l’evoluzione della famiglia. A seguire la domanda va estesa a profughi, migranti, popolazioni anziane e comunità climaticamente vulnerabili. Ne scaturiscono risposte che parlano di autocostruzione, idee di densificazione, soluzioni ibride di spazi lavoro-abitazione, di integrazione tra spazi individuali e comuni.

Ancora, l’era post-digitale richiede che l’ambiente costruito diventi più agile, malleabile e flessibile al cambiamento. Tra gli altri Research to Architecture presenta alle Corderie «un approccio progettuale che cura in modo proattivo i processi spaziali, temporali e tecnologici che trascendono la forma e creano nuove identità che rispondono alla complessità e all’imprevedibilità del nostro pianeta». L’installazione curata da un gruppo svizzero con Gramazio Kohler Architects include nel progetto NEST una piattaforma plung-in dinamica per la ricerca architettonica, e DFAB HOUSE, un edificio sperimentale che dimostra una ricerca di progettazione computazionale e nella fabbricazione digitale.

Dalla casa al condominio, alla città. Nella stanza dedicata al tema Living Apart Together si esplorano nuove variabili di convivenza: gradi di compattezza, tipi di condivisione e diverse concezioni di privacy e collettività. Francisco e Manuel Aires Mateus con Ground propongono una riflessione sul fatto «che l’architettura risponda al suo tempo. Alcune cose però non cambiano: viviamo insieme sotto lo stesso cielo, sullo stesso terreno. E queste sono metafora della comunità». L’installazione in questo caso sottolinea il rapporto tra ciò che c’è sopra e sotto di noi, il mettere le radici a terra e cogliere l’immensità del soffitto. Nella stessa sezione della mostra, Finn Geipel e Giulia Andi con lo studio Lin Architects and Urbanists propongono una riflessione sul fatto che le crescenti pressioni del mercato immobiliare richiedono nuove soluzioni. Come soddisfare l’urgente bisogno di alloggi a prezzi accessibili, nonostante l’aumento dei costi di costruzione? Il tema si sposta sulla crescita di densità abitativa nei centri e nelle periferie. La risposta è una tipologia di edificio adattabile: Bremer Punkt è quindi un prototipo di edificio di riempimento con una varietà di alloggi contemporanei, economicamente abbordabili e flessibili all’interno degli schemi edilizi modernisti del dopoguerra: cubi in legno con una pianta di 14 per 14 metri, di quattro piani che si inseriscono in maniera flessibile nel tessuto urbano, adattandosi all’esistente. «L’inserimento – spiegano – avviene con una precisione chirurgica in modo da creare delle nicchie nel tessuto urbano, preservando al tempo stesso il carattere del quartiere definito dai suoi spazi verdi».

Dal ruolo dei gruppi sociali emergenti alla re-invenzione di strumenti sociali per affrontare nuove forme di vita pubblica come sono i programmi educativi estesi, parchi interattivi, spazi di meditazione collettiva. Progetti che parlano del come si possano esprimere i valori delle comunità emergenti o emarginate, per riconciliare il divario tra istituzioni pubbliche e private e per abbracciare la consapevolezza ambientale della nuova generazione. Tra gli autori di soluzioni possibili c’è Benedetta Tagliabue con il progetto del Masterplan Plateau Central a Parigi, dove gli appartamenti sono al centro di un sistema che include l’agricoltura urbana svolta sui tetti, le terrazze diventano spazi comuni per tutti i vicini e, ancora, un mercato alimentare è pensato come spazio commerciale e come strumento di integrazione sociale. Dalla periferia parigina l’idea che il cibo possa diventare una modalità per ottenere una partecipazione più attiva da parte della collettività.

Temi trasversali, non solo architettonici, per rivelare un’architettura che entra nell’immaginario collettivo. Il progetto come occasione per «costruire dei ponti, per collegare quartieri diversi, per connettere terra e mare». Una visione del mondo possibile sotto la lente di un curatore che, ringraziando per l’opportunità l’ex presidente Paolo Baratta e il neopresidente Cicutto ha ricordato che lui «rappresenta l’est, il sud globale, spesso sottorappresentato nelle piattaforme usuali. Dalla Biennale un gesto di inclusione». Una connessione che lega la laguna di Venezia con le altissime montagne del Libano, una Biennale che apre le sue porte lanciando anche un messaggio di “pace”, ultima parola pronunciata al termine della conferenza stampa di apertura.

In copertina: Hashim Sarkis

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Paola Pierotti
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