“La nave” di Emergency, storia delle architetture per un salvataggio
Un reportage grafico firmato Raul Pantaleo, Marta Gerardi e Francesco De Scisciolo, sull’imbarcazione di soccorso “Life Support” in nome di Gino Strada
«Questo è stato l’ultimo grande sogno di Gino Strada, su cui ha insistito molto perché mancava quel “pezzo” in mare, quell’anello di congiunzione tra gli ospedali in Africa e il nostro Paese», esordisce così Raul Pantaleo, architetto, co-fondatore dello studio TAMassociati e membro del direttivo di Emergency, a proposito della Life Support, la nave dell’associazione fondata da Strada in mare dal dicembre 2022. E su una di queste missioni di soccorso nel Mediterraneo c’era proprio lui, «un pezzo della storia» ci tiene a sottolineare, in qualità di architetto che con Emergency lavora dal 2004 e ha costruito ospedali negli angoli più remoti del pianeta, ma anche con un ruolo «politico» in quanto membro del direttivo. Il suo racconto, che prende vita nelle pagine della graphic novel La nave, pubblicata per i tipi di BeccoGiallo con le illustrazioni di Marta Gerardi e le fotografie di Francesco De Scisciolo, si è fatto anche “voce” in un incontro tenutosi a questa edizione del Festivaletteratura di Mantova appena conclusasi. Con lui in dialogo Luca Misculin, giornalista de Il Post e autore di un podcast dall’omonimo titolo – La nave appunto – registrato a bordo della Geo Barents di Medici senza frontiere lo scorso anno (in questi giorni è uscito un altro podcast con voce narrante lo scrittore Paolo Giordano, sempre in missione sulla Life Support ndr).
Ma come si allestisce una nave? «Come abbiamo fatto con gli ospedali – racconta Pantaleo –. È un progetto un po’ folle come lo è stato il centro di cardiochirurgia Salam, a Khartoum, in Sudan, o quello di Entebbe, in Uganda, realizzato insieme a Renzo Piano (con riferimento al centro di chirurgia pediatrica)». In realtà, dice l’architetto, il suo lavoro non è stato tanto quello di “progettare” la nave, in quanto è un’imbarcazione che è stata adattata a un altro uso, ma di «umanizzare» l’area dove vengono raccolti i naufraghi una volta salvati (chiamata shelter area).
«È un luogo di poca architettura forse – rimarca – ma dove si costruisce una grande umanità».
Quindi il team di TAMassociati ha seguito la livrea, ha dato una mano al team tecnico sugli elementi spaziali e nel maggio del 2023 Pantaleo è salito a bordo per dare dei «ritocchi». Per citare il libro, «le fiancate della nave diventeranno una danza di colore che accoglierà gli sventurati ospiti con un abbraccio rassicurante: il loro incubo in mare è finito». Una danza di colori che idealmente collega gli ospedali di Emergency nel Sud del mondo alla nave, a questo corpo intermedio sulla via dell’Europa, continuando una storia che non ha fine.
Ma un altro aspetto che «si porterà a terra», prosegue l’architetto, è la capacità di vivere in spazi ristretti – in questo caso una cabina 14 metri quadri per cinque persone, con un bagno condiviso con un’altra – che porta a relazioni sociali molto «precise» e a esperienze antropologiche «irripetibili». «Queste navi sono luoghi straordinari – dice ancora – dove si esercita una precisione chirurgica e dove tutti sono dei professionisti che si addestrano tutti i giorni nelle operazioni di salvataggio. Non sono dei “taxi del mare” come vengono apostrofate da qualcuno. Tutti sanno esattamente cosa fare».
E poi, facendo riferimento all’ossessione di Gino Strada per la bellezza (ndr come aveva già raccontato a thebrief), Pantaleo sottolinea quanto la capacità di umanizzare e rendere bello uno spazio voglia anche dire curare e prendersi cura delle persone, un’azione che ha a che fare anche con la loro dignità. «Gli spazi e l’architettura hanno ruolo fondamentale in questo healing process (processo di cura). Io l’ho capito in Darfur, nel 2004, costruendo un pezzo di ospedale nel mezzo della guerra, che le persone che soffrono per i conflitti o per la povertà beneficiano innanzitutto degli spazi che le ospitano». «Certo, sulle navi c’è il tema delle vernici che devono essere ignifughe, dell’antincendio e così via, ma le azioni che abbiamo fatto sono minime – racconta ritornando al tema del ruolo dell’architetto su una nave e dell’architettura “che cura” –. Però anche dipingere a fasce colorate la shelter area ha dato immediatamente un’immagine di cura di quel luogo».
Oltre a questo, c’è anche il tema dell’essere parte di un gruppo di lavoro e allo stesso tempo interprete di un progetto etico-sociale, che costringe il progettista a mettere un po’ da parte il proprio ego. Un insegnamento che Pantaleo si sente di dare alle giovani generazioni: «è una questione di umiltà, capire che il tuo gesto di colore è fondamentale tanto quanto lo sarebbe stato trasformare quello spazio completamente. In futuro credo che andremo in quella direzione, perché ci saranno sempre meno risorse e meno tempo. Costruire una sala operatoria in luogo di guerra vuol dire fare lavoro chirurgico, perché non puoi correggere gli errori, deve venire bene al primo colpo. Tutto ciò allena l’etica al nostro lavoro, che diventerà fondamentale nei prossimi anni». Un’etica, e una cultura, che forse andrebbe rifondata anche per quello che significa salvare vite in mare.
E così si conclude il viaggio di Pantaleo: 2mila miglia percorse, 336 ore di navigazione e 29 naufraghi salvati.
In copertina: Copertina del libro “La nave” ©BeccoGiallo
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