I drammaturghi dello spazio: l’architettura di Giò Forma
A colloquio con Florian Boje, co-fondatore dello studio milanese molto attivo in Arabia Saudita
«Il paesaggio e il cliente sono per noi il libretto, la partitura da leggere. Tutto è palco, la lente attraverso la quale viviamo le cose». Florian Boje, tedesco di nascita ma italiano d’adozione, è uno dei fondatori dello studio Giò Forma. Insieme a Claudio Santucci e Cristiana Picco, hanno dato vita nel 1998 a Milano a una realtà eclettica e multidisciplinare, che oggi conta su oltre 40 collaboratori, i cui interventi spaziano dalla lirica al set design, dall’architettura alle installazioni temporanee e agli allestimenti museali. Che sia l’Albero della vita di Expo 2015, gli spettacoli con droni luminosi realizzati per Aperol a Venezia, i palchi di Vasco Rossi, Jovanotti e Cesare Cremonini, o le scenografie del Teatro alla Scala di Milano, Giò Forma affronta l’attività progettuale come una tavolozza, un brano di musica, un contesto da studiare su cui innestare innovazione e creatività. Oggi è uno degli studi italiani che più lavora in Arabia Saudita, dove ha firmato, tra gli altri, la Maraya concert hall e il Design space, entrambi ad AlUla, unico sito Unesco del Regno, oltre a due alberghi i cui lavori sono in corso.
Ma tutto nasce con Mtv, che in Italia arriva alla fine degli anni ‘90, con quella rivoluzione estetica e visual che ha segnato un’intera generazione: «tutto quello che si vedeva su Mtv l’abbiamo disegnato noi, dai grandi eventi agli studi televisivi – racconta Boje –. E l’abbiamo fatto un po’ dappertutto, in Italia, in Germania, in Spagna, in Grecia». Da lì si passa alle mostre, ai musei, ai quali si aggiungono l’iconico Albero della vita e il Padiglione Italia, sempre per l’esposizione internazionale del 2015. «Da lì abbiamo capito che eravamo bravi a creare questo ibrido tra architettura, allestimento e racconto» continua.
Per Giò Forma anche l’architettura è una forma di storytelling, al pari della musica o dell’arte. «Anche uno show con i droni con il cielo come palco può essere architettura, un edificio descritto ma non ancora costruito. Quello che per tanti può essere faticoso, come raccontare spazi e storie, per noi non lo è».
«Facciamo anche tantissima lirica – prosegue l’architetto – una passione non facile da sostenere da un punto di vista economico, ma comunque bellissima. Abbiamo realizzato quattro prime alla Scala, e continuiamo a lavorare in questo ambito. A fine anno, per esempio, andrà in scena la più grande Turandot mai fatta in Corea del Sud, con un palco da 70 metri di estensione». Un’opera imponente con una produzione interamente coreana, che dà prova delle capacità tecniche dello studio italiano, impegnato in prima linea nell’utilizzo del Bim e degli strumenti di modellazione applicati anche alle arti visive.
«Noi siamo ultra 3D-addicted, iniziamo già in Bim dal primo minuto del progetto. Proprio in questi giorni stiamo valutando una codifica del “palco Bim”
– racconta Boje –. Sarebbe una prima mondiale, visto che nel mondo dei concerti ognuno usa i software che vuole. Stiamo quindi iniziando a domandarci se non sia il caso di codificare le consegne in questo ambito come si fa nell’architettura. Sarebbe come un progetto architetturale, soprattutto oggi dove c’è sempre meno tempo per montare e organizzare, con impatti positivi su rischi, tempi, costi e sicurezza dei lavoratori».
Ma quale è la differenza tra un committente d’architettura e un cantante famoso? Esiste un metodo Giò Forma? «Noi facciamo architettura quasi esclusivamente attraverso gare, quindi diciamo che il cliente, in questo senso, è un po’ “nascosto” dietro la competizione. Noi su questo siamo molto inglesizzati, usiamo gli schemi Riba, per esempio, dove i binari dell’architettura e dell’engineering sono ben definiti. Tuttavia, posso dire che le persone si stupiscono spesso di come raccontiamo i nostri progetti: li raccontiamo quasi fossimo dei drammaturghi anche per lo spazio. Nella lirica, inoltre, molto spesso si tratta di gare, ma poi si lavora con registi o direttori artistici che hanno una loro opinione, una loro interpretazione dell’opera che è concettuale e non visiva. Ecco, noi cerchiamo quella chiave, quella visiva. Nel campo della musica invece, quando collabori con artisti del calibro di Vasco Rossi, la sua performance è così potente che tu diventi un amplificatore del suo show».
E l’esperienza in Arabia Saudita? «È un luogo che sta diventando una cucina di sperimentazione, dove lavorano tutte le archistar (dal resort di Jean Nouvel a Sharaan, all’aereoporto di Foster + Partners, fino allo studio Fuksas anche per The Line, piuttosto che Luca Dini – si veda l’intervista di PPAN per il progetto Architettura Chi e Come – ndr) e dove si accede solo attraverso gare a invito. Sono concorsi molto seri, ben fatti, con dimostrazione di know-how e modalità e tempistiche di livello internazionale. Non è facile aggiudicarsi queste competizioni, ci vuole moltissima pazienza anche per rientrare da un punto di vista economico. Basti pensare anche alle tempistiche per la prima Biennale d’Arte islamica dentro l’aeroporto internazionale di Jeddah: un solo anno tra il concept, la vittoria del concorso e l’apertura».
«Spesso poi ci troviamo a competere con i grandi studi, e anche se è difficile vincere gli interventi più importanti, abbiamo successo nella categoria dei medi, forse grazie al nostro essere poco ortodossi. Con questo voglio dire che quando noi diciamo che tutto è un palco, lo intendiamo per davvero. Tutto è un’equazione che ha un libretto, una partitura, uno spazio, che noi cerchiamo di leggere con molta attenzione. Il caso della Maraya Concert Hall realizzato con il nostro partner local Black Engineering ne è un esempio (un edificio rivestito interamente di specchi): a differenza degli altri studi in gara, anche se conoscevamo già la bellezza e l’epicità del sito, io sono andato prima sul posto. Nella relazione per il concorso, abbiamo scritto nella prima pagina che in quel sito non si sarebbe dovuto costruire nulla, ma nella seconda abbiamo aggiunto che, se proprio avessero dovuto, allora gli specchi sarebbero stati la soluzione migliore. E così abbiamo vinto».
La ricetta è quella di essere attenti alla lettura delle diverse componenti e poi riproporle, non è semplice, bisogna togliere un po’ la vanità.
«In Arabia Saudita il paesaggio, la componente umana e culturale, sono molto forti. Ci sono 35 milioni di persone con una tradizione altrettanto marcata in corso di ri-ingegnerizzazione grazie alle riforme messe in campo. Forse è molto italiano, questa capacità di prendere, imparare, guardare delle culture e poi riproporle, appunto come se fossero da un palco, non significa non intervenire, ma diventare parte di quel percorso di engineering culturale del quale vogliamo essere parte. È questo che secondo me lo rende interessante ed è anche una lezione importante per l’architettura moderna. Ricordiamoci anche che il concetto di contesto è molto cambiato rispetto al passato, quando avevamo edifici tutti uguali tra di loro».
In quali altri Paesi del Medio Oriente lavorate? «Molto in Oman, dove abbiamo vinto la gara per il Centro visitatori all’interno del sito Unesco di Wadi Dawkah per Amouage (uno dei leader mondiali nella produzione di profumi). Un intervento molto bello e prezioso per noi. Poi abbiamo due o tre gare molto grandi nella capitale, Muscat. Lavorare sui siti Unesco ci ha insegnato molto in termini di responsabilità etica, perché sono interventi delicati, che comunque si fanno per passione. Anche strutture ricettive come il Chedi hotel di Hegra, in Arabia Saudita (apertura a ottobre), possono partecipare a questo racconto, valorizzandolo e comunicandolo».
A riprova che per lavorare su scala globale serve un curriculum internazionale, anche la composizione dello studio di Giò Forma rispecchia questa internazionalità e multidisciplinarietà. «Ci sono collaboratori che vengono da tutte le parti del mondo, dalla Russia all’Ucraina, dall’Indonesia alla Giordania all’Egitto. Io stesso sono crucco! – dice Boje – Tuttavia, la nostra è una nicchia particolare, e per questo si fa fatica a trovare figure che si appassionino a tutto. Cerchiamo risorse ibride ma creiamo anche team ibridi, le persone lavorano un po’ su tutti i progetti, c’è chi prima fa un museo e poi nel progetto seguente aiutano su un’altra cosa. Ma abbiamo capito che questa nostra lente e modo di lavorare funziona sia per avere successo nelle gare che per la crescita e motivazione delle persone. Quando una gara “fitta” (Boje utilizza questo inglesismo nel significato di “calzare a pennello”), molto spesso la vinciamo e così è per i collaboratori, quando si fittano per noi rimangono poi a lungo nello studio».
Non è solo una questione di carattere, è anche una questione tecnica e di capacità di utilizzo di software di ultima generazione. «Siamo molto più avanzati rispetto ad altri studi, complice anche il fatto di avere sempre meno tempo. Siamo organizzati in modo quasi militare per ottimizzare i tempi e le persone devono sicuramente essere molto qualificate per lavorare con noi».
In copertina: Maraya Concert Hall ©Giò Forma
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