Nel convegno del ministero della Cultura focus sul concetto di valorizzazione compatibile e sui veri scopi della tutela
La salvaguardia del patrimonio culturale ed edilizio in Italia è da sempre oggetto di dispute. Alcuni interventi, recenti e meno recenti, di cosiddette archistar su monumenti in città storiche importanti hanno prodotto accese discussioni non solo tra i tecnici ma anche più in generale nel mondo della cultura. Da qui prende le mosse, per cercare una difficile sintesi, il convegno dal titolo “Il progetto sul patrimonio storico al tempo delle archistar” tenutosi lo scorso 4 luglio al ministero dell’Istruzione e del Merito, e promosso da quello della Cultura.
«Nessuno è contro l’architettura dei professionisti o delle archistar – ha dichiarato in apertura Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, che pure da storico dell’arte si è più volte scagliato contro interventi di architetti sul patrimonio culturale – il tema del linguaggio sta in mezzo tra restauro e ristrutturazione. Restaurare vuol dire prendere un luogo e restituirlo alla vita che ha perso. In certi casi l’adeguamento di una visione alla storia è certamente legittimo e applicabile. Abbiamo edificato 14 milioni di strutture in Italia negli ultimi 60 anni, – ha proseguito Sgarbi – per la maggior parte brutte. Per questo alcune aree storiche delle città più importanti dovrebbero essere tutelate. Il tema principale è la qualità dell’edilizia: la politica può indicare un indirizzo convocando i sovrintendenti e dare una serie di criteri».
Ci sono due modi contrapposti e distinti per intervenire sul patrimonio culturale. Uno privilegia la creatività, il rinnovo e considera il contesto come sfondo.
L’altro basa il progetto sulla conoscenza storica, sulla cultura del restauro e sull’attenzione ai concetti di autenticità e stratificazione. Il convegno, partendo dall’illustrazione dettagliata di alcuni restauri effettuati da archistar, ha provato a stimolare una riflessione su limiti e modi con cui dar vita a un restauro “corretto”, nonché sui concetti di valorizzazione compatibile e sui reali obiettivi della tutela.
«La sovrascrittura, funzionale e interpretativa, mi sembra la parola chiave negli interventi di restauro. L’Italia deve evitare l’effetto presepe, perché i nostri centri storici sono sempre più uguali tra loro, non cogliendo il pezzo singolo e autentico del territorio. Questo accade quando il restauro non svolge più la sua funzione di sovrascrittura. Ugualmente importante è anche il tema della reversibilità, perché quando si parla di restauro brutto, tutto passerebbe in secondo piano se ogni intervento fosse reversibile, e quindi assolvere alla propria funzione per poi permettere una nuova progettazione in futuro. Essere severi dal punto di vista del giudizio sulla qualità architettonica può essere un boomerang che non permette di effettuare interventi di rigenerazione urbana», ha dichiarato Luigi Prestinenza Puglisi, critico dell’architettura.
Nel corso dell’evento è stato mostrato il progetto Sextantio, intervento dell’imprenditore Daniele Kihlgren a Santo Stefano di Sessanio in Abruzzo. Qui un esempio di restauro filologico, basato su un complesso mix di indagini che mirano a riportare l’opera d’arte alla sua forma originaria, ha permesso la rinascita di un borgo medievale arroccato nel parco del Gran Sasso, a 1.250 metri sul livello del mare. Prende così vita un albergo diffuso nato in un borgo antico in rovina, in cui gli ospiti sono a contatto diretto con la realtà del territorio, all’insegna della cultura e dell’unicità.
Quanto il gesto estetico “estremo” è responsabilità delle archistar e quanto invece frutto di un mancato dialogo tra tutti gli attori coinvolti? In un’ottica di sostenibilità e rispetto per il territorio, la progettazione del futuro può ripartire da piccoli gesti di recupero piuttosto che di demolizione.
«Molto spesso l’atteggiamento delle archistar è come quello del lupo famelico nelle fiabe: aggressivo e autoreferenziale. L’architettura timida, nata all’incirca 40 anni fa, prende vita proprio in reazione a questo atteggiamento. Ci sono due modi per rapportarsi col nostro patrimonio storico: gli schiaffi o le carezze. L’architettura timida agisce così, con interventi minimi e oculati, frutto di un lungo tempo di studio e preparazione, anche sui materiali. Bisogna rapportarsi alla qualità dell’esistente, questo è anche un modo per essere sostenibili e rispettosi delle materie prime» l’opinione di Marco Ermentini, architetto fondatore della Shy Architecture Association che raggruppa il movimento per l’architettura timida.
Dopo la “Timidina”, con l’auspicio “l’architettura riprenda la sua funzione medicinale, di balsamo che cura i lembi delle ferite dei nostri luoghi”, Ermentini ha presentato al convegno con Sgarbi un nuovo farmaco: il “Tamor”, un calmante timido contro la distruzione del patrimonio culturale.
«La presenza sul territorio è un punto di confronto importante. Il termine archistar è stato scelto in maniera provocatoria, è ovvio che la responsabilità non è solo degli architetti; evidentemente c’è anche una precisa richiesta della committenza, che non pensa abbastanza alla ricucitura del territorio. In Italia ci si deve forzatamente confrontare su cosa c’è intorno sia come testimonianza architettonica che come paesaggio. L’architettura che ha l’obiettivo della ricucitura dovrebbe lavorare sui materiali, sulle dimensioni e sul rapporto tra vuoti e pieni» ha sostenuto Luca Rinaldi, soprintendente Abap Bergamo-Brescia.
Dalla dimensione culturale a quella strettamente economica. Molto spesso la gestione del patrimonio porta a un’ossessione muscolare della cultura, che cerca di dimostrare di riuscire a produrre anch’essa denaro, puntando a smentire che «con la cultura non si mangia». Un sintomo di un complesso d’inferiorità infondato.
«La cultura dovrebbe essere finanziata perché diventi accessibile, diffusa, alla portata di tutti. I benefici sono molteplici e vanno oltre il lato economico: maggiore qualità della vita urbana e senso di appartenenza di una comunità territoriale. Senza studio, ricerca e narrazione pertinente del valore del patrimonio ai nostri posteri lasciamo solo sassi, per questo in termini tecnici chiudere i luoghi della cultura è un’azione dissennata. Aprire i luoghi della cultura vuol dire farli frequentare, in modo pertinente e intelligente» ha argomentato Michele Trimarchi, docente Economia della Cultura, Iuav Venezia. La sensazione è che in un Paese come il nostro, che detiene un patrimonio culturale non solo enorme, ma anche variegato e diffuso tra i vari territori per ragioni storiche, questo tema non possa che continuare a produrre polemiche.
In copertina: Fondaco dei Tedeschi ©Delfino Sisto Legnani, Marco Cappelletti, oma.com
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