10-08-2014 Paola Pierotti 5 minuti

Venezia, Barcellona e Parigi sotto la lente dell’Espresso. Città e Cultura raccontati per tutti

L’Espresso ha vinto la quinta edizione del premio Inarch-Ance per la sezione dedicata alla diffusione dell’architettura. Ecco i contenuti principali del numero in edicola

"Ecco io credo sia giunto il momento di trasformare una performance in opera permanente nel tempo. I musei non l’hanno capito ma noi possiamo sperimentarlo. L’arte è esperienza offerta ad un numero illimitato di persone, ma individuale. Non la si vive come esperienza corale. Il lavoro del curatore è dare al mondo esperienze che speriamo siano straordinarie, ma che comunque non si possono vivere al cinema o al computer"

Hans Ulrich Obrist nell’intervista di Alessandra Mammì

L’Espresso ha vinto la quinta edizione del premio Inarch-Ance per la categoria dedicata a quei media generalisti che diffondono la cultura architettonica. Per capire il senso di questo premio basta sfogliare l’ultimo numero della rivista (numero 32, 14 agosto) per scoprire che in una solo numero, in diversi articoli curati da altrettanti giornalisti, la città e la cultura del progetto sono un filo rosso che cuce i temi di attualità con quelli della cultura.

Venezia, Barcellona e Parigi sono le tre città messe sotto la lente dell’ultimo numero del’Espresso. Roberto di Caro ha firmato un articolo dedicato a Venezia “decadente, abbandonata, con pochissimi abitanti (negli anni ’30 erano oltre 160mila e oggi sono 50mila). Tutto si trasforma in albergo o fast food. Per turisti sì ma mordi e fuggi” (pagine 38-41).

Barcellona viene analizzata dal giornalista Wlodek Goldkorn attraverso il racconto dello scrittore Javier Caracas, autore di romanzi che indagano su memoria e identità in Spagna (pagine 50-53). “Le città – scrive – si dividono tra quelle inclusive e quelle esclusive. Nelle prime, a New York per esempio chiunque dopo poche settimane si sente a casa. Nelle secondo, luoghi che spesso hanno una struttura da metropoli come Firenze o Francoforte si è di casa a partire dalla terza generazione. E Barcellona, a quale delle due tipologie risponde? – chiede il giornalista a Caracas – Barcellona è una città esclusiva che non ama i forestieri, è perennemente in difesa ed è sospettosa nei confronti di chi ama godere e divertirsi”. Le città vengono descritte come sono, per quello che comunicano, per quelle emozioni che lasciano vivere. “Sono state le Olimpiadi del 1992, oltre novemila atleti da 172 paesi a rendere questa città aperta, ad inserirvi il virus di cosmopolitismo. Poi è arrivata la generazione Erasmus che conquistò le strade, i marciapiedi, i bar, inventando mille forme di svago, trasgressione, divertimento”. E il giornalista ne esplicita gli effetti: “Ecco dunque che i quartiere lungo il mare di Barcellona, una volta regno della piccola criminalità e di prostituzione, con le sue viuzze poco frequentabili, ora è diventato una specie di salotto all’aperto, all’insegna dell’architettura postmodernista”. La città contemporanea è fatta di “eclettici ponti”, “shopping center che per la loro semantica poco hanno a che vedere con questa specifica città”, “palazzi costruiti da archistar del momento”.

Venezia, Barcellona e poi Parigi, “Grandissima Parigi” si legge nel titolo dell’articolo scritto da Alessandra Bianchi (pagine 72-75) che raccolta il Nouveau Grand Paris “rivoluzionario progetto urbanistico che nel giro di 15 anni dovrebbe trasformare la Ville Lumière in una megalopoli in grado di competere con New York, Londra o Tokyo. Ma che a giudicare dalle difficoltà con cui si sta mettendo in moto, rischia di diventare una grande scommessa perduta”. Lanciato da Sarkozy e ripreso dal governo Hollande, il piano procede tra polemiche e ritardi “finchè a giugno – scrive Bianchi – è stato dato il via all’ampliamento della linea 14 destinata a diventare la colonna vertebrale del progetto”. Il cuore del progetto è una supermetropolitana “ma il Gran Paris – continua il giornalista – è anche e soprattutto un progetto architettonico al centro del quale si pone il ruolo della stazione, l’onnipresente ‘non luogo’ che accoglie quotidianamente umori, pensieri e nervosismi dei passeggeri”. L’Espresso racconta il concept del grande piano parigino e intervistando i principali attori, il responsabile del progetto o quello che fino a pochi mesi fa è stato il presidente della Societé du Grand Paris, spiega ad un pubblico allargato anche alcuni dettagli del processo: “Il lavoro degli architetti e degli ingegneri sarà fatto in stretta collaborazione con i comuni, perché ogni stazione dovrà rappresentare la zona dove è stata costruita. E dovrà essere circondata da casa, negozi e servizi. Il 90% dei francesi che abitano in periferia avrà una stazione a meno di due chilometri. E non sarà più – spiega Bianchi – soltanto un luogo dove prendere un treno ma n servizio pubblico inserito e integrato nella città”.

Tre racconti di città e non solo. Nella sezione Cultura dell’Espresso di metà agosto, Francesca Sironi torna sul tema del turismo e affronta il binomio con la cultura, con particolare attenzione alle mostre d’arte (pagine 44-47). “Mega eventi artistici. Pagati milioni dai Comuni. Mentre i fondi per i musei calano. Oggi la tendenza è questa”. Sgarbi provoca e dice “A cosa serve una mostra? Nella maggior part dei casi al turismo. In alcuni casi a far soldi. A volte effettivamente alla cultura”.

E sfogliando le pagine del settimanale, c'è anche l'intervista di Alessandra Mammì ad Hans Ulrich Obrist, direttore della Serpentine Gallery, che svela i trucchi del mestiere del curatore. In “Professione Curator” (pagine 76-77) Obrist risponde alle domande della giornalista svelando la sua anima e anticipando qualche contenuto del suo primo libro “Fare una mostra” (Utet). Lui, “il curatore più creativo, sorprendente, rivoluzionario e utopico”, dichiara “ecco io credo sia giunto il momento di trasformare una performance in opera permanente nel tempo. I musei non l’hanno capito ma noi possiamo sperimentarlo. L’arte – continua Obrist – è esperienza offerta ad un numero illimitato di persone, ma individuale. Non la si vive come esperienza corale. Il lavoro del curatore è dare al mondo esperienze che speriamo siano straordinarie, ma che comunque non si possono vivere al cinema o al computer”. Il riferimento è diretto anche al suo ultimo lavoro per la 14 Mostra della Biennale di Venezia: “creare come nel padiglione svizzero un’esperienza attraverso un archivio è stata una sfida che ha avuto bisogno del pensiero di architetti come Herzog&De Meuron e artisto come Pareno o Sehgal”.

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Paola Pierotti
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