31-05-2022 Chiara Brivio 5 minuti

Biennale Architettura 2023, con la Lokko l’Africa come laboratorio del futuro

Per la curatrice anglo-ghanese il dono più prezioso e potente del design è la capacità di influenzare il modo di vedere il mondo

Un rovesciamento del punto di vista, un’inversione del canone, un nuovo sguardo sul mondo, con l’Africa come punto di riferimento: è così che si prefigura la 18esima edizione della Biennale di Architettura di Venezia, che si terrà dal 20 maggio al 23 novembre 2023. E la visione è quella della sua curatrice, l’anglo-ghanese Lesley Lokko, architetta, scrittrice, direttrice dell’African Futures Institute di Accra, ma soprattutto intellettuale e pensatrice.

E il titolo scelto, “Il laboratorio del futuro”, riflette questa sua poliedricità, personale multiculturalità e approccio di «speranza», come l’ha lei stessa definita nel corso della conferenza stampa di presentazione della mostra, di poter guardare agli altri, al mondo, al futuro, da uno dei laboratori più grandi sul nostro pianeta: il continente africano. Si sposta così il punto di vista, si inverte, si tenta di lasciarsi alle spalle quella visione eurocentrica predominante, auspicabilmente traslandolo dall’accademia al campo dell’architettura e appropriandosi del linguaggio della decolonizzazione e dell’antropologia per guardare al rapporto tra Africa e il resto del pianeta, sovvertendone il canone.

«C'è un luogo in cui tutte le questioni di equità, risorse, razza, speranza e paura convergono e si fondono. L'Africa. A livello antropologico, siamo tutti africani. E ciò che accade in Africa accade a tutti noi» ha detto la Lokko, che ha successivamente aggiunto, «per alcuni di noi che lavorano da tempo su questi temi, questo legame è molto evidente. Penso che però, come canone, l’architettura questa relazione non l’abbia ancora compresa. Quindi parte dell’obiettivo di questa mostra sarà presentare questi elementi che già erano presenti, ma che non sono ancora stati compresi nel mondo in cui auspicavamo. Stiamo usando l’Africa come un luogo specifico da cui guardare al resto del mondo, anche se non sarà una mostra solo sull’Africa. È un tentativo di essere specifici riguardo a un luogo e a un contesto, per poter comprendere il tutto».

Più che gli edifici, le forme, i materiali o le strutture, il dono più prezioso e potente dell'architettura è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo.

Lesley Lokko

«Negli ultimi due decenni sono emersi due termini potenti, che sono contemporaneamente globali e locali: decolonizzazione e decarbonizzazione – ha spiegato ancora la curatrice –. Entrambi sono macrofenomeni che si osservano nella dimensione sociale, politica ed economica e vanno ben oltre la nostra comprensione o il nostro controllo, anche se si riflettono a livello microscopico negli aspetti più intimi della nostra vita quotidiana. Questa caratteristica della realtà contemporanea di essere allo stesso tempo generale e specifica, influenzata da forze di ampia portata e tuttavia plasmata dalle specificità del luogo, è un ossimoro». «Lo ripeto sempre, e so di suonare come un disco rotto – prosegue con ironia – ma le questioni legate alla decolonizzazione e alla decarbonizzazione sono due doni per il canone dell’architettura (come aveva già sottolineato in un’intervista a thebrief). Vorrei che questa mostra fosse vista allo stesso modo, come un dono».

Questo perché, «più che gli edifici, le forme, i materiali o le strutture, il dono più prezioso e potente dell'architettura è la capacità di influenzare il nostro modo di vedere il mondo».

Ecco che quindi dalla storia dell’Africa, dall’essere il Continente più giovane, dalla lezione della pandemia – solo il 15% degli abitanti del Continente sono vaccinati, ma hanno uno dei tassi di infezione e decessi più bassi al mondo, ha spiegato la Lokko –, ma anche dalla schiavitù forzata a cui sono stati sottoposti gli africani («Con tutti i discorsi sulla decarbonizzazione è facile dimenticare che i corpi neri sono stati le prime unità di energia ad alimentare l'espansione imperiale europea che ha plasmato il mondo moderno. Equità razziale e giustizia climatica sono due facce della stessa medaglia»), nasce questa speranza, questa nuova visione del mondo, più giusta e più inclusiva. «La visione di una società moderna, diversificata e inclusiva è seducente e persuasiva, ma finché rimane un'immagine, resta solo un miraggio. È necessario qualcosa di più di una rappresentazione e gli architetti, storicamente, sono attori chiave nel tradurre le immagini in realtà» dice ancora la curatrice.

Ma sarà anche una Biennale in cui ci sarà spazio anche per una riflessione e una ricerca sui conflitti e sulla guerra, ha puntualizzato, per esempio esplorando sia il ruolo che possono ricoprire gli architetti da un punto di vista pratico, per migliorare le condizioni di vita, ma anche su come ne possano parlare.

Infine, ritornando al tema della mostra, la Lokko conclude «la Biennale di Venezia è anche essa stessa una sorta di laboratorio del futuro, un tempo e uno spazio in cui si pongono interrogativi sulla rilevanza della disciplina per questo mondo, e per quello a venire».

Una Biennale forse veramente contemporanea, che vuole tenere il passo con i grandi temi e le grandi questioni che attanagliano il mondo, e che si vedrà come riuscirà ad esprimere e trasmettere i cambiamenti epocali vissuti negli ultimi 36 mesi, dal punto di vista dell’architettura. Ma anche una Biennale che porta al centro l’Africa, come del resto hanno voluto fare i giurati del Pritzer Prize, il Nobel della progettazione, quest’anno assegnato al burkinabé Diébédo Francis Kéré e alla sua architettura minima e guidata dall’impegno sociale.

Che sia un auspicio per il futuro?

In copertina: Lesley Lokko © Jacopo Salvi, courtesy of La Biennale di Venezia

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Chiara Brivio
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