01-02-2023 Paola Pierotti 9 minuti

Andrea Tabocchini, il decollo con le scuole Futura e il Museo Egizio

Dall’esperienza internazionale con Rcr Arquitectes, Kengo Kuma e Oma, ad Ancona. Talenti italiani al test dei concorsi

Base ad Ancona, dopo diverse esperienze internazionali negli studi di Oma, Kengo Kuma & Associates e Rcr Arquitectes. Per Andrea Tabocchini il 2023 inizia sul trampolino di lancio con un buon posizionamento per le scuole del bando Futura e con l’aggiudicazione del concorso per il Museo Egizio di Torino. Andrea Tabocchini Architecture si distingue nel panorama italiano.

Quale è stato il tuo percorso formativo e professionale?

È stato a tutti gli effetti un itinerario formativo all’estero iniziato quando ero ancora studente. Nel 2014, terminato l’anno di Erasmus presso l’Universitat Politècnica de València, ho avuto la fortuna di poter fare un tirocinio estivo ad Olot nello studio di RCR Arquitectes; l’anno successivo ne ho fatto un altro a Tokyo, nello studio di Kengo Kuma & Associates; poi mi sono trasferito a Rotterdam nello studio di Oma, con cui ho lavorato dal 2016 al 2021, anno in cui ho deciso di tornare in Italia per iniziare Andrea Tabocchini Architecture.

Cosa ti porti in dote da queste tre esperienze?

Sono state tutte fondamentali sia da un punto di vista tecnico che culturale: la prima in Spagna da RCR Arquitectes (Pritzker Architecture Prize 2017 ndr) è stata brevissima, un’estate, ma il loro approccio e le loro architetture sono così intensi ed emozionanti che mi hanno lasciato un segno indelebile. Con loro ho percepito sulla pelle l’indicibile potenziale dello spazio – sia fisico che interiore – e la sua capacità di costruire paesaggi naturali e culturali. Il rapporto tra architettura e paesaggio mi ha fatto avvicinare alla cultura giapponese e così, ancora studente, ho fatto la mia seconda esperienza professionale nello studio di Kengo Kuma & Associates a Tokyo. Lì ho iniziato a comprendere che ogni progetto architettonico è un’occasione per connettere le persone con la natura e con gli altri esseri viventi: un edificio non deve essere un simbolo fine a sè stesso; al contrario, deve provare a stimolare sensazioni in grado di unire fisicamente e culturalmente la società ed il pianeta. Dal Giappone mi sono poi spostato in Olanda per lavorare nello studio Oma – Office for Metropolitan Architecture e così, terminato il periodo di studi e tirocini (2016), ho lavorato con lo studio fondato da Rem Koolhaas fino a quando non mi son sentito pronto per iniziare un percorso “indipendente” (che poi non è mai indipendente per almeno due motivi: il primo è che si è sempre il risultato polifonico delle esperienze vissute, dei contesti e delle persone con cui si ha avuto a che fare; il secondo è che il nostro mestiere non è mai un lavoro individuale!). Quella con Oma è stata quindi l’esperienza più lunga. Con loro ho avuto modo di fare progetti in tutto il mondo, di viaggiare, di confrontarmi con centinaia di professionisti e di lavorare a progetti di dimensioni e tipologie differenti: masterplan urbani, stadi, uffici, residenze, università, hotel… ma soprattutto ho imparato che l’architettura deve essere coraggiosa, sedurre, ascoltare, razionalizzare, comunicare e, a volte, anche provocare.

Il ritorno “a casa”, perché e come?

Tornare in Italia è stata una scelta bellissima e particolarmente emozionante: l’estero mi ha dato tantissimo, mi ha fatto crescere, mi ha dimostrato che sono solo le idee, l’impegno, la determinazione, la voglia di ascoltare e la capacità di comunicare che contano per far bene… ma a un certo punto credo sia giusto tornare nel proprio Paese. Vivere per un periodo all’estero significa far esperienza di un distacco temporaneo dal contesto in cui si è cresciuti che permette di rendersi conto di quanto meravigliosa sia l’Italia, di scollarsi di dosso quei retaggi culturali che spesso rischiano di disincentivare l’idea di “fare” (o di far bene), e ancora di guardare le situazioni da più prospettive. Oltretutto, ormai i confini geografici sono sempre più relativi; tornare in Italia non significa lavorare solo in Italia, anzi: io cerco di fare progetti sia in Italia che all’estero – sia tramite incarichi privati che partecipando a concorsi internazionali.

Su quali radici e valori si fonda il tuo studio? E che tipo di progetti?

Probabilmente direi il coraggio, l’umiltà e l’entusiasmo, ma soprattutto la convinzione che ogni progetto sia un’occasione di ricerca e di crescita sociale e culturale. Le dimensioni non contano: progettare un appartamento non può essere diverso dal progettare un museo! In ogni nostro lavoro coesistono il desiderio di confrontarsi con il contesto su cui siamo chiamati a progettare, cercando di comprenderlo, di interpretarlo e di instaurarci un dialogo; ma anche la voglia di contribuire a quel pezzetto di mondo su cui ogni progetto interviene con degli spazi di qualità che abbiano qualcosa da dire, che suscitino delle emozioni e che sviluppino un senso di appartenenza sociale e culturale.

Dicevamo, un gennaio sul trampolino di lancio?

Speriamo che sotto al trampolino ci sia la piscina! Scherzi a parte, il 2023 è iniziato con delle belle notizie. Per quanto riguarda le scuole di Futura, stando alle graduatorie provvisorie sono arrivato primo al concorso per la scuola di Ancona, e terzo e quarto in due scuole in Molise fatte insieme allo studio Peluffo & Partners. Riguardo al concorso per il Museo Egizio di Torino, che abbiamo vinto qualche giorno fa, avevo proposto allo studio Oma di partecipare facendo da capogruppo; con loro avevo lavorato diversi anni prima di aprire il mio studio in Italia e sono stato felicissimo che abbiano deciso di partecipare. Oltre ad Oma, per il progetto architettonico c’erano il mio studio (Andrea Tabocchini Architecture) e T-Studio, Manfroni Engeneering per le strutture, Sequas per gli impianti – e i consulenti Andrea Longhi per la storia, Studio Strati per il restauro conservativo e Studio de Camillis per il progetto illuminotecnico.

Cosa significa per te partecipare ai concorsi?

Credo che se i concorsi dovessero scomparire perderemmo la quasi totalità dell’architettura di alto livello. È come se si pensasse di togliere allo sport le Olimpiadi o le competizioni internazionali. La parola concorso (dal latino concursus, da cum e curro “corro insieme”) “indica l’affluire simultaneo di più persone o cose a una stessa meta, a un medesimo fine” (Treccani). Partecipare ai concorsi, quindi, significa “correre insieme” per contribuire in maniera corale alla crescita del Paese che bandisce il concorso e, più in generale, alla cultura. I concorsi sono occasioni di allenamento, di studio, di ricerca, di sperimentazione, di crescita e di confronto.

Cosa suggeriresti per il futuro dei concorsi?

Che siano aperti a tutti, senza restrizioni esplicite o implicite (tra queste i requisiti), e garantiscano ai vincitori dei concorsi la possibilità di partecipare alle fasi successive. Noi progettisti dobbiamo essere umili ed aperti alle collaborazioni, ai consigli, alla condivisione – dobbiamo essere sportivi appunto; allo stesso tempo, credo sia importante che la società dia fiducia, aiuti e supporti chi ha voglia di fare. Attualmente la questione è complessa, anche fuori dal nostro Paese, ma io ho sempre grande fiducia nelle persone e pertanto credo che nonostante tutto i concorsi siano una grande opportunità di crescita per tutti, anche per i “giovani” (o meno anziani/più atletici, per riprendere il parallelismo con lo sport).

Tra i primi “segni” italiani di Andrea Tabocchini un’installazione a Senigallia sul lungomare, per Demanio Marittimo.

È stato il primo progetto realizzato: anche quello (come le altre installazioni) a seguito della vittoria di un concorso aperto fatto quando ero ancora studente. È un progetto a cui sono molto affezionato, semplice ma molto atmosferico.

Qualche consiglio che vorresti lasciare ai giovani che stanno guardando con interesse al mondo dell’architettura? 

L’unico consiglio che mi sento di dare, che poi forse è anche una speranza, è quello di non smettere mai di credere nei propri sogni. Troppo spesso ci diciamo che non si può fare niente, che non funziona nulla, che non ci sono opportunità. Non è vero! Ogni momento di crisi è un’occasione grandissima di riflessione e miglioramento. Ce lo insegna la storia. Dobbiamo tornare a credere nei sogni, sono loro il vero motore della società. Dobbiamo ricominciare a parlare di bellezza, che è tutto fuorché un valore superficiale. Dobbiamo aver fiducia nelle persone e nel futuro, trasformando ogni occasione in un’opportunità… con umiltà, determinazione e tanto entusiasmo!

Dalle opere pubbliche, di carattere culturale al mercato privato, incluso il rapporto con general contractor e real estate, come ti prefiguri questo passaggio? Che ruolo possono avere i giovani per l’architettura prossima? 

La nostra professione sta affrontando un momento di forte transizione: dobbiamo capire come affrontare la complessità della sovrastruttura sociale, le sfide ambientali, la disuguaglianza sociale, l’inarrestabile progresso tecnologico e virtuale e, non da ultimo, il diffondersi di una cultura veloce e leggera che difficilmente si sposa con l’idea del fare architettura (e non solo). In questo contesto fluido, quale è il ruolo dell’architettura? La risposta alla domanda non è ancora chiara, ma chi come noi ha la fortuna di essere biologicamente giovane ha il dovere di porsi queste domande, di pro-gettare (gettare avanti).


L’“insurrezione mentale” che stiamo vivendo, per usare un’espressione cara ad Alessandro Baricco, è l’occasione per tornare ad unirci e ridefinire i valori sociali e culturali che caratterizzano la nostra epoca.


E questo va fatto tutti insieme: progettisti, committenti, cittadini ed amministrazioni. Ecco perchè sono così ottimista: l’architettura ha di nuovo le motivazioni giuste per interpretare, stimolare e dar forma alla società del presente e del futuro, rispondendo con creatività ai bisogni materiali ed immateriali.

Restando sul “mercato reale” si parla del nuovo Codice dei Contratti – avevamo accolto questo alert sul nostro thebrief qualche mese fa – della legge dell’architettura se ne parla da tempo . Cosa serve al nostro Paese per una “scossa” e per una ventata di qualità, diffusa?

Coraggio, onestà, impegno ed entusiasmo. Se fosse per me, io inizierei da qui. Riguardo alla legge dell’architettura… chiaramente sono favorevole. Il mondo ha sempre più bisogno di bellezza che, come dicevamo prima, non è un concetto superficiale: è un valore profondo che testimonia e stimola il rispetto, il benessere e la fiducia nelle idee, nelle persone e nel futuro.

In copertina: l’architetto Andrea Tabocchini

 


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Paola Pierotti
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